Museo di Capodimonte, nel cuore verde di Napoli
Nella maestosa Reggia di Capodimonte, protetta da giardini e alberi di alto fusto, concepita sin dall’inizio per accogliere la collezione Farnese dei Borbone di Napoli, divenne poi la loro residenza storica ed in seguito dei Bonaparte, dei Murat e dei Savoia. Fa parte dello stesso polmone verde: il Bosco di Capodimonte.
Il Museo, situato nella Reggia, ospita opere d’arte già dal 1758. L’esposizione è così suddivisa:
Galleria Farnese, con opere di Tiziano, Vasari, Masaccio, Sanzio e Botticelli.
La Collezione Farnese fu trasferita a Napoli da Carlo di Borbone, figlio di Elisabetta ultima discendente dei Farnese. Occupa l’ala orientale del piano nobile del palazzo voluto dal sovrano nel 1738, con l’intenzione di dare collocazione adeguata al ricco patrimonio ereditato. I primi elementi della collezione vi giungono grazie all’iniziativa di Alessandro Farnese, papa col nome di Paolo III, interessato anche alle antichità, oggi conservate al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, oltre che alle principali personalità artistiche del periodo chiamate a ritrarlo: da Raffaello a Tiziano a Guglielmo della Porta.
Un altro Alessandro, nipote di Paolo III e anch’egli cardinale, arricchisce le collezioni circondandosi di una schiera di artisti del calibro di Tiziano, El Greco, Giulio Clovio, Bertoja, Salviati e Guglielmo Della Porta, le cui opere costituiscono oggi la parte principale della raccolta.
Un terzo significativo nucleo va ad incrementare la collezione grazie alla donazione del colto bibliotecario Fulvio Orsini, consigliere di Alessandro, che nel 1600 unisce la propria raccolta d’arte e antichità, tra cui i preziosi cartoni di Raffaello e Michelangelo, all’attento collezionista cardinale Odoardo Farnese.
Nel 1611 Ranuccio I Farnese, duca di Parma e Piacenza, reprime spietatamente una congiura ai suoi danni, condanna a morte tutti i feudatari ribelli e ne confisca i beni: in tal modo pervengono nelle raccolte di famiglia capolavori di Andrea del Sarto, Giulio Romano, Correggio e Bruegel il Vecchio.
Collezione Borgia, suddivisa nelle sezioni antichità egizie, etrusche e volsce, greco-romane, romane, arte dell’Estremo Oriente, antichità arabe, manufatti etno-antropologici dell’Europa Settentrionale, dell’America centrale ed il Museo Sacro.
La Collezione Borgia si forma grazie all’impegno del colto cardinale Stefano Borgia, segretario della Congregazione di Propaganda Fide. Nel 1957 i manufatti d’arte medioevale e moderna, da lui raccolti, vengono destinati al Museo di Capodimonte, dove sono state ricomposte tre parti dell’originario allestimento: Museo Sacro, Arabo-Cufico e Indico. Originariamente, nel suo palazzo di Velletri Borgia aveva creato un museo, suddiviso in dieci classi di oggetti: antichità egiziane, volsche, etrusche, greche, romane, manufatti dell’Estremo Oriente, arabi, dell’Europa settentrionale, messicani e cristiani, ovvero il Museo sacro del Cristianesimo. Alla sua morte, il Museo di Velletri viene messo in vendita dal nipote, Camillo Borgia. L’accordo di acquisto, concluso nel 1814 con Gioacchino Murat, viene ratificato, in seguito alla caduta del governo napoleonico, nel 1817 da Ferdinando I di Borbone, che dispone il trasferimento delle raccolte nel Real Museo Borbonico, l’attuale Museo Archeologico Nazionale.
Appartamento storico, con due sale dedicate alla Galleria delle Porcellane.
L’Appartamento Reale, al primo piano del Museo di Capodimonte, fa rivivere gli ambienti di un palazzo storico che nasce come museo e che col tempo diventa una delle residenze dei sovrani. La storia della famiglia vicereale è raccontata nelle sale dedicate ai suoi principali protagonisti come Carlo di Borbone che decide la costruzione del palazzo nel 1738, Ferdinando IV che diventa re di Napoli a soli nove anni, Ferdinando II autore del completamento della reggia, fino al decennio francese e ai riallestimenti postunitari. Il palazzo diventa una più stabile residenza reale con l’arrivo di Carolina Bonaparte che adegua l’appartamento al gusto della corte imperiale, e Gioacchino Murat che realizza la strada di collegamento con il centro della città e si serve dell’opera di artisti del calibro di Antonio Canova, autore del ritratto in gesso di Letizia Ramolino Bonaparte.
L’edificio diventa oggetto di una radicale opera di rinnovamento a partire dal 1838, quando Ferdinando II decide di dargli una nuova veste. In questo periodo viene ultimata anche la decorazione del Salone delle feste con una lieve e fastosa decorazione pittorica di gusto neoclassico, come quella che adorna la camera da letto ‘pompeiana’ di Francesco I e Maria Isabella, collocata nell’ala meridionale, la più antica del palazzo, che si affaccia sul golfo di Napoli.
Con l’Unità d’Italia e la nomina del piemontese Annibale Sacco a direttore della Real Casa Savoia sono sistemate alcune sale e raccolte nel Museo di Capodimonte tesori provenienti da altre dimore borboniche come il prezioso Salottino di porcellana, trasferito qui dalla Reggia di Portici nel 1866, o il pavimento in marmo intarsiato rinvenuto in una villa dell’imperatore Tiberio a Capri in epoca borbonica e rimontato nel Salone della Culla, che deve il suo nome alla culla disegnata da Domenico Morelli (conservata nella Reggia di Caserta), donata nel 1869 dalla città di Napoli ai Savoia per la nascita di Vittorio Emanuele III.
Galleria delle Arti a Napoli, con opere di artisti partenopei.
La Galleria delle arti a Napoli dal ’200 al ’700 occupa quasi interamente il secondo piano del Museo e racconta la storia dell’arte a Napoli e nel Mezzogiorno in un arco temporale di oltre sei secoli che ha visto avvicendarsi svevi, angioini, aragonesi, viceré spagnoli e austriaci, e, da ultimo, i Borbone. Il percorso cronologico è costituito principalmente da opere di artisti napoletani e meridionali, non mancano però preziosi contributi di artisti provenienti da fuori che hanno lavorato nel regno o vi hanno inviato i propri manufatti.
Molte opere provengono da chiese e conventi napoletani e del Sud, anche grazie al collezionismo dei Borbone che hanno incrementato le raccolte d’arte in loro possesso attraverso acquisti mirati e confische seguite alle soppressioni di alcuni ordini monastici. Gli acquisti di opere, continuati dopo l’unità d’Italia, proseguono ancora oggi e in anni recenti sono entrati a far parte della collezione dipinti di Dirk Hendricksz, Luca Giordano, Pedro de Rubiales e Andrea Sabatini da Salerno. La prima parte della Galleria espone un piccolo gruppo di opere del periodo svevo e un più cospicuo nucleo angioino di cui fanno parte le tavole di Roberto d’Oderisio, del Maestro delle tempere francescane e soprattutto del senese Simone Martini. Il percorso prosegue con le sale del ’400, in cui spiccano i dipinti di Colantonio e di un altro senese, Matteo di Giovanni, che testimoniano la viva partecipazione della Napoli aragonese alla vicenda artistica internazionale.
Pregevole la presenza, accanto a pittori locali, di numerose opere di artisti non napoletani come Pinturicchio, Cesare da Sesto, Polidoro da Caravaggio, Vasari, Sodoma, Tiziano. Conclude simbolicamente questa prima parte la Flagellazione di Cristo di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio che all’inizio del XVII secolo segna uno spartiacque nella cultura figurativa napoletana, ponendo le fondamentali premesse per lo sviluppo della scuola pittorica locale.
La seconda parte della sezione è quasi del tutto dedicata al ’600, considerato il Secolo d’oro della pittura partenopea, dominato nella prima metà dal naturalismo caravaggesco che si ritrova tanto nelle tele di Battistello Caracciolo, Carlo Sellitto e dello spagnolo Jusepe Ribera, quanto nelle rimodulazioni classiciste di Artemisia Gentileschi, Simon Vouet e Andrea Vaccaro. Le aperture cromatiche di Massimo Stanzione e Bernardo Cavallino preludono al fiorire del barocco che si manifesta in città anche attraverso l’ampia diffusione della pittura di genere, con gli specialisti delle battaglie, tra cui Aniello Falcone e delle nature morte, annoveriamo Luca Forte, Giuseppe Recco, Giovan Battista Ruoppolo.
Segue il nucleo pittorico della collezione d’Avalos che introduce l’opera di uno dei massimi esponenti del barocco, il napoletano Luca Giordano, il cui luminoso virtuosismo è documentato dalle grandi pale d’altare delle sale successive. L’itinerario si conclude nelle sale dedicate a Mattia Preti e al ’700, dal rococò di Francesco Solimena e dei suoi seguaci fino al naturalismo illuminista e dissacrante di Gaspare Traversi.
Ottocento privato, con sette sale comprendenti dipinti del XIX e XX secolo.
L’Ottocento privato è ospitato nell’appartamento ad uso privato della corte, all’epoca dei Borbone e poi dei Savoia. Si trova al piano ammezzato cui si accede attraverso il monumentale scalone esagonale a doppia rampa, progettato dall’architetto Ferdinando Sanfelice. Negli spazi, con vista panoramica sul parco, sulla città e sul golfo di Napoli, si respira l’atmosfera accogliente di un elegante ambiente privato che conserva la memoria storica del passato insieme ad una pregevole galleria d’arte. Sette sale con oltre duecento opere tra dipinti, sculture, oggetti d’arredo in cui anche i tessuti e i tendaggi partecipano a ricreare preziose atmosfere, dagli ambienti dell’Anticamera alla Stanza da Scrivere, dalla Camera da Letto alla Stanza della Camerista, suggerendo una dimensione più intima, lontana dalla maestosità degli ambienti di rappresentanza dell’Appartamento Reale, al piano nobile del Palazzo.
Nel 1816 è l’appartamento di Ferdinando I e a metà secolo la nipote, Sua Altezza Reale la principessa donna Carolina, lo abita durante i suoi soggiorni a Napoli. Con i Savoia gli ambienti vengono destinati al ramo cadetto dei Duchi di Aosta, che lasceranno il Palazzo solo nel 1948, nonostante il passaggio della struttura al demanio risalga al 1920. La suddivisione delle opere in ambienti tematici consente di attraversare la storia dell’arte come in un viaggio e scoprire i cambiamenti del gusto e della cultura figurativa napoletana, dal neoclassicismo, citiamo: Raffaele Postiglione, Vincenzo Camuccini, Gennaro Maldarelli; alla scuola di Posillipo, con: Anton Sminck Pitloo, Giacinto Gigante, Gabriele Smargiassi, Teodoro Duclère; dalla pittura della seconda metà del secolo, ricca di storia: da Domenico Morelli a Vincenzo Marinelli; nuove visioni del paesaggio, con: Filippo Palizzi e Giuseppe De Nittis e della realtà, citiamo: Gioacchino Toma, Vincenzo Migliaro, Michele Cammarano, Teofilo Patini. E, ancora, gli orientalismi, con: Marco De Gregorio e Ettore Cercone; le ricerche cromatiche di Antonio Mancini e Francesco Paolo Michetti e le raffinatezze galanti di Giovanni Boldini; fino ad arrivare ai primi decenni del ‘900 con: Giacomo Balla e Pellizza Da Volpedo.
Le opere esposte sono pervenute al Museo per acquisto dei sovrani, sia borbonici che di Casa Savoia, ma anche grazie alle cospicue donazioni di illuminati collezionisti napoletani, come Alfonso Marino, Gustavo Toma, Maria Soulier Marsiconovo, Gaetano Vecchione, Giuseppe Cenzato e Angelo Astarita, negli anni Sessanta e Settanta. La sezione completa la galleria di opere dell’Ottocento al terzo piano del museo, il cui nucleo centrale si riallaccia al progetto, attuato subito dopo l’Unità d’Italia, di istituire a Capodimonte una Galleria di Arte moderna destinata ad ospitare opere di artisti viventi.
La Galleria dell’Ottocento si trova nello spazio recuperato nell’area dei sottotetti, dove è ospitata anche una piccola sezione di arte contemporanea, dedicata alle nuove tendenze delle arti a Napoli dal secondo dopoguerra agli anni Sessanta. Il nucleo ottocentesco confluisce a Capodimonte per l’attenzione rivolta dai sovrani di casa Savoia alla produzione artistica del tempo, secondo un orientamento già avviato dai Borbone. In seguito ci saranno nuove e importanti acquisizioni, molte delle quali dovute a donazioni di illustri collezionisti, come Alfonso Marino e Giuseppe Cenzato. In particolare, con Vittorio Emanuele II l’ampliamento della raccolta si avvale dell’operato di qualificati consulenti, come i pittori Domenico Morelli e Federico Maldarelli, mentre la Società Promotrice di Belle Arti, fondata a Napoli dopo l’Unità d’Italia, offre nuove occasioni promozionali ed espositive agli artisti.
L’attenzione al vero, declinato in tutte le sue forme, dalla pittura di storia allo studio della natura, fino alle sfere sentimentale e popolare, vede impegnata tutta la scuola pittorica napoletana: Domenico Morelli, Filippo Palizzi, Gioacchino Toma, Francesco Paolo Michetti, Vincenzo Migliaro. Nella sezione dell’800 sono presenti anche delle sculture, a testimoniare le tendenze artistiche che attraversarono Napoli, dal verismo: Vincenzo Gemito, Raffaele Belliazzi; al simbolismo: Luigi De Luca. La grande tela risorgimentale di Michele Cammarano, La Breccia di Porta Pia, fa da spartiacque tra la sezione ottocentesca e quella di arte contemporanea, esposta nella stessa sala.
Arte contemporanea, che accoglie il celebre Vesuvius di Andy Warhol.
L’Arte Contemporanea arriva al Museo di Capodimonte nel 1978 con la mostra personale di Alberto Burri, curata dal soprintendente Raffaello Causa e dal gallerista napoletano Lucio Amelio. L’artista realizza per Capodimonte il Grande Cretto Nero, che viene collocato, secondo il desiderio dell’autore, tra Caravaggio e i caravaggeschi. Negli anni successivi il museo collabora con alcune celebri gallerie napoletane, tra cui lo Studio Morra, la Galleria Rumma, lo Studio Trisorio, la Galleria Artiaco e, in maniera più duratura e continuata, con Graziella Lonardi Buontempo, fondatrice degli Incontri Internazionali d’Arte. Capodimonte accoglie così le mostre di artisti di fama internazionale come la personale di Andy Warhol nel 1985 articolata in una sequenza di dipinti dall’esuberante policromia, raffiguranti il Vesuvio in eruzione di cui il museo conserva oggi un esemplare. Con le donazioni degli artisti che si confrontano con gli spazi e le collezioni del museo, si allestisce, tra il secondo e il terzo piano, la sezione di Arte Contemporanea che documenta l’impegno civile e culturale di artisti italiani e stranieri come Giulio Paolini, Carlo Alfano, Daniel Buren, Joseph Kosuth, Michelangelo Pistoletto, Jannis Kounellis, Sigmar Polke e Mario Merz.
La Collezione d’Avalos è frutto di una donazione. Nel 1862 Alfonso d’Avalos, lascia in legato la sua raccolta alla Pinacoteca Nazionale di Napoli. La donazione, contestata dagli eredi, è oggetto di una lite giudiziaria che si conclude solo nel 1882 con il trasferimento delle opere al Museo Borbonico. La collezione si compone di ricami, miniature, stampe, armi e dipinti: dai paesaggi fiamminghi alla pittura devozionale di piccolo formato, dai grandi maestri del Seicento, quali Ribera, Pacecco De Rosa, Andrea Vaccaro, Luca Giordano, alle imponenti nature morte di Giuseppe Recco, Giuseppe Ruoppolo, Abraham Brueghel.
L’attuale allestimento rispecchia in parte la raccolta ordinata da Andrea d’Avalos principe di Montesarchio, il quale conferisce alla collezione una precisa fisionomia raccogliendo un cospicuo nucleo di pittura napoletana seicentesca, selezionando e commissionando dipinti dal forte valore decorativo, come le nature morte e le opere dai temi sensuali tratti dalla storia, dalla mitologia e dalla letteratura.
Il Gabinetto dei Disegni e delle Stampe comprende una raccolta di 2900 tra disegni e acquerelli e 24000 stampe all’incirca. Ad esso appartengono i celebri cartoni preparatori per affresco, riferibili a Michelangelo, a Raffaello e alle loro scuole, esposti nella Collezione Farnese al primo piano del museo, provenienti dalla raccolta del bibliotecario Fulvio Orsini, lasciata in eredità nel 1600 al cardinale Odoardo Farnese. Completano il nucleo Farnese della collezione i disegni di scuola parmense, bolognese e romana, circa 50 disegni dei più importanti artisti italiani del ‘500 e del ‘600 come il Parmigianino, Girolamo Mazzola Bedoli, il Bertoja e Sofonisfa Anguissola. Il patrimonio si accresce grazie alla politica di acquisti in età borbonica: oltre ai numerosi fogli di autori italiani, Ferdinando IV aggrega al fondo preesistente la collezione di 20518 tra disegni e stampe del conte trentino Carlo Firmian, ambasciatore imperiale a Napoli dal 1754 al 1758, nonché il nucleo di disegni indiani della collezione del cardinale Stefano Borgia. Dal 1957, le collezioni si incrementano ulteriormente grazie ai generosi lasciti dei privati, come la donazione Astarita nel 1970, costituita da oltre 400 tra acquerelli, matite ed oli su carta, in massima parte di Giacinto Gigante, esposta in parte e visitabile presso le sale espositive del Gabinetto Disegni e Stampe.
Il fondo di opere ottocentesche si è ulteriormente arricchito con l’acquisizione nel 2013 di una nuova collezione grafica, quasi un diario su carta dell’intero percorso creativo di Vincenzo Gemito. Della prestigiosa collezione, raccolta da Achille Minozzi, illuminato imprenditore napoletano, vicino all’artista, che ha protetto e sostenuto, salvando da probabile distruzione studi, schizzi, disegni, sculture, è possibile ammirare al secondo piano del museo una selezione di 80 disegni e 19 sculture. L’esposizione dedicata a Vincenzo Gemito presenta un’ampia selezione delle opere appartenenti alla Collezione Minozzi, acquistata nel 2013, composta da trecentosettantacinque pezzi tra disegni, sculture, bronzi, terrecotte e marmi, nonché alcuni esemplari in argento, che saranno sistemati negli spazi al piano nobile del palazzo adiacenti alla Sala della Culla nell’Appartamento Reale, dove sarà riproposto l’allestimento originario del Salotto Minozzi, con i disegni esposti nella boiserie progettata dal collezionista insieme all’artista.
L’allestimento ripercorre l’intera esperienza artistica di Gemito: dal ritratto in terracotta di Maria la Zingara (1881 ca.), a quelli in bronzo di Domenico Morelli (1873), Giuseppe Verdi (1873 ca.) e Mariano Fortuny (1874), alle opere ispirate al mondo classico, come la Psiche, dall’esemplare del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, il Filosofo e la maschera di Alessandro Magno.
Infine, una selezione di disegni relativi ai temi più noti della produzione di Gemito, come il Pescatore, l’Acquaiolo, l’Arciere, oltre ad alcuni schizzi per il famoso Trionfo da tavola che il re Umberto I di Savoia gli commissionò proprio per Capodimonte, il cui bozzetto in cera è esposto in una sala della sezione Ottocento a Capodimonte.
La collezione dei Manifesti Mele, tra le più grandi realtà industriali e commerciali a Napoli nella Belle Époque, è stata donata al Museo di Capodimonte dagli eredi di Emiddio e Alfonso Mele fondatori de “I Grandi Magazzini Italiani”, inaugurati nel 1889 in via San Carlo a Napoli e attivi, a livello internazionale, nei settori della moda e del lusso, fino alla chiusura del 1932. La raccolta si compone di trentadue eleganti manifesti pubblicitari di grande formato, commissionati ai maggiori artisti del periodo, che raccontano il gusto e lo stile di un’epoca tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento.
Illustratori e disegnatori di notevole prestigio hanno collaborato alla realizzazione delle affiches, tra questi: Achille Beltrame, Pier Luigi Caldanzano, Leonetto Cappiello, Marcello Dudovich, Franz Laskoff, Gian Emilio Malerba, Achille Luciano Mauzan, AldoMazza, Leopoldo Metlicovitz, Enrico Sacchetti, Aleardo Terzi e Aleardo Villa, i quali, seppur con diverse interpretazioni stilistiche, hanno seguito le indicazioni del committente, enfatizzando la raffinatezza dei capi d’abbigliamento.
Una sala del Museo di Capodimonte è dedicata all’Armeria farnesiana e borbonica, uno dei più importanti esempi di collezionismo del genere: si compone di un nucleo originario più antico appartenuto alla famiglia Farnese e alle sue guarnigioni (XVI e XVII secolo) e di un nucleo collezionato dai Borbone di Napoli (XVIII e XIX secolo). Al primo gruppo appartengono armi da fuoco, da taglio e da difesa, armi bianche, spade e pugnali, armi da botta, armi in asta, armature e guarniture da guerra e da torneo, queste ultime incise all’acquaforte e parzialmente dorate, appartenenti ai membri di casa Farnese. La maggior parte degli armamenti è realizzata da abili armaioli milanesi, attivi tra il Cinquecento e il Seicento, tra cui il famoso Pompeo della Cesa. La collezione conserva un valore altissimo malgrado danni e dispersioni subiti in seguito all’occupazione napoleonica.
Ai maestri armieri, fra i quali spiccano Michele Battista, Emanuel Estevan, Carlo La Bruna, Biagio Ignesti, Natale del Moro, spettano una serie di pezzi che risentono dell’influenza dei modelli spagnoli. Fanno parte della raccolta anche fucili e pistole delle fabbriche inglesi e francesi, donate ai sovrani: fra questi va segnalata la coppia di pistole a fucile firmate da Jean Baptiste La Roche, celebre armaiolo al servizio di Luigi XV di Francia, dono offerto dai reali di Francia a Carlo di Borbone, in occasione della nascita del figlio Ferdinando nel 1751.
Le armi bianche, le spade e le daghe provengono invece dalla Real Fabbrica o dalla Fabbrica degli Acciai, quest’ultima collocata nella palazzina, già della porcellana, nel Bosco di Capodimonte, dal 1782. Sono inoltre presenti alcuni esempi di modellini da guerra utilizzati dalla scuola di artiglieria del regno.