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Autore: Espedito Pistone

Il medico ortopedico: cosa fa e quando serve rivolgersi a lui

Il medico ortopedico è lo specialista che conosce l’anatomia e le caratteristiche delle ossa, delle articolazioni, dei muscoli, dei legamenti, dei tendini, delle cartilagini e di come ciascun di questi elementi lavora all’interno del complesso meccanismo del corpo umano. Egli riconoscere i disturbi, le patologie e individua se ci sono le condizioni che possono evolvere in malattie più o meno gravi. Nella diagnosi utilizza moderni strumenti tecnologici.

Dunque i medici non sono tutti uguali e, ognuno, nella sua specializzazione sviluppa competenze specifiche per la conoscenza, la diagnosi e il trattamento delle patologie. Vi presentiamo in quest’articolo l’attività del dottore Giuseppe Monteleone, Medico Ortopedico specializzato in Ortopedia e Traumatologia, con oltre 30 anni di esperienza in patologie e disturbi del sistema muscolo-scheletrico . Quindi, di tutto ciò che riguarda ossa, articolazioni, muscoli, tendini e legamenti. Durante la lunga esperienza nel settore pubblico ospedaliero, il dottore Monteleone ha risolto tantissimi casi clinici.

Da lui ci siamo fatti spiegare da lui quali sono le competenze che deve avere l’ortopedico

Intanto, diamo una definizione chiara del termine ortopedia

L’ortopedia è la disciplina medica che si occupa della diagnosi e del trattamento dei disturbi a carico del sistema muscolo-scheletrico. Si occupa della correzione dei problemi fisici, sia negli adulti che nei bambini. In origine, la disciplina si occupava di correggere le deformità del corpo dei più, difatti la parola di stampo greco unisce: bambino (pais) e dritto (orthos).

Dalla profonda conoscenza dell’anatomia e delle caratteristiche delle ossa, delle articolazioni, dei muscoli, dei legamenti, dei tendini, delle cartilagini , il medico ortopedico arriva a formulare una diagnosi e una cura. Egli è in grado di riconoscere disturbi e patologie, individuando le condizioni che potenzialmente possono evolvere in malattie più gravi.

Nella diagnosi si avvale, inoltre, di moderni strumenti tecnologici ed è in grado di avviare trattamenti farmacologici, così come di intervenire chirurgicamente. È suo ruolo prescrivere l’intervento della Fisioterapia e dell’esercizio fisico. Tutte le indicazioni sui percorsi di riabilitazione per restituire il pieno e corretto utilizzo dell’arto coinvolto, sono di sua competenza.

L’ortopedico, per riassumere, si occupa di tutti i fenomeni a carico della colonna vertebrale, della schiena, delle mani, dell’anca, della caviglia e del piede. Intervenendo sia nella gestione del dolore che nel trattamento di lesioni, infortuni e traumi a carico dell’apparato muscolo-scheletrico.

Per quali patologie è necessario ricorrere al medico ortopedico?

Grazie all’ortopedico, il quale deciderà se e come collaborare con un Fisioterapista, si può intervenire nei casi di fratture ossee, sia composte che scomposte; di infortuni quali lussazioni, distorsioni, rottura dei legamenti; di problemi muscolari come contratture, stiramenti e strappi; tendinopatie; deformità degli arti e della colonna vertebrale; artrosi, artrite e discopatie: nei casi di sindromi da compressione nervosa, come quella del tunnel carpale, di osteoporosi e di tutte le conseguenze causate dai tumori benigni o maligni alle ossa.

Quando è bene rivolgersi al medico ortopedico

Tutte le volte che si incontrano difficoltà a svolgere le normali attività quotidiane, a seguito di un trauma o di un infortunio, in presenza di dolori cronici, di riduzione della capacità di movimento delle articolazioni, di un’instabilità nei movimenti è bene rivolgersi al medico ortopedico.

Se soffri di una di queste condizioni puoi rivolgerti con fiducia al dottore Giuseppe Monteleone,
Medico Ortopedico specializzato in Ortopedia e Traumatologia
, per una visita di controllo.

Tutela dei diritti, le donne delle Authority per una comunicazione più efficace

Monitorare i contenuti diffusi in rete, al fine di costruire una mappatura dell’informazione online. Su queste basi parte l’inedito connubio di tutte le donne delle Authority della Regione Campania. Tra i progetti la vivibilità dello spazio virtuale e un obiettivo fondamentale: creare un tavolo permanente di confronto fra le donne componenti delle Authority, gli stakeholder, la società civile e la politica.

L’organizzazione dell’incontro si deve al gruppo Donne e Media, coordinato da Emilia Visco, in collaborazione con Maria Pia Rossignaud, vicepresidente dell’Osservatorio TuttiMedia. Il programma da portare avanti nel futuro immediato sarà il frutto delle competenze di ciascuno messe al servizio della causa. Saranno affrontate tutte le tematiche, dalla tutela dei minori a quella delle persone con disabilità e degli anziani, fortemente colpiti del Digital divide questi ultimi.

Senza trascurare il tema sempre più emergente della violenza digitale, contro le donne e gli adolescenti. C’è l’impegno di inserire nell’agenda politica di ciascuna Authority questi argomenti, poiché l’accelerazione digitale e il mondo della rete hanno potenziato non solo le disuguaglianze di genere, ma anche preoccupanti forme di violenza sessista.

Legge su psicologo scolastico modificata

La figura dello psicologo scolastico non può interferire con l’autonomia scolastica. Una specificazione che si è resa necessaria al fine di non bloccare l’iter della legge. Così, nel corso di un’apposita riunione del Consiglio Regionale della Campania è stata ribadita la piena libertà di scelta degli istituti, in merito a ogni iniziata della istituendo figura dello psicologo scolastico.

La Campania è la prima regione d’Italia che si dota di una figura come questa, prima ancora che il Governo abbia preso una decisione a livello nazionale. Fra gli obiettivi, il potenziamento delle attività di inclusione degli alunni con disabilità, disturbi specifici dell’apprendimento ed altri bisogni educativi speciali. Inoltre, il servizio di psicologia scolastica è finalizzato alla promozione della salute e del benessere psicofisico di studenti, genitori, insegnanti, dirigenti e personale scolastico.

Fuori i cani da Palazzo Reale

Cittadini e turisti sì, i cani no. I giardini di Palazzo Reale a Napoli sono diventati off limits per Fido. I cani non possono più entrare, neanche al guinzaglio e con museruola. In una zona dove sono davvero pochissimi gli spazi adatti allo svago dei pelosi.
Ma c’è chi è pronto a dare battaglia. Come l’avvocato Antonio Parisi e la dolce Zoe, che proprio non riesce a farsene una ragione…

Servizio a cura di Canale 9

Carte Leopardi, tutta l’opera è consultabile online

L’opera di Giacomo Leopardi, uno dei poeti più amati dagli italiani, è ora consultabile on line al link https://dl.bnnonline.it/handle/20.500.12113/4758. Lo si deve all’immane lavoro compiuto dagli studiosi e custodi dei manoscritti dell’autore, appartenenti al Fondo “Carte Leopardi” della Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III di Napoli.

Complessivamente sono state prodotte 15.202 immagini per la digitalizzazione, tra opere rilegate e carte sciolte. Si è trattato di una operazione lunga e complessa, sostenuta in parte dal finanziamento dell’8 per mille e compiuta con la collaborazione della società  Inarte. Un grande vantaggio per studiosi, studenti e semplici cittadini che possono adesso vivere l’emozione di accostarsi alla scrittura originale del grande poeta partecipando direttamente al processo creativo dell’autore.

Il grande merito della Biblioteca Nazionale

Da molti anni la Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III di Napoli è impegnata nelle attività di digitalizzazione del proprio patrimonio. Diversi sono stati i progetti  finanziati dal Ministero della Cultura e da fondi europei e i contributi regionali. Preziosa è stata, inoltre, la collaborazione con grandi aziende informatiche. La straordinaria raccolta Leopardiana è pervenuta alla Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III di Napoli per lascito testamentario di Antonio Ranieri, l’amico napoletano di Giacomo Leopardi. Non prima dell’esito favorevole seguito a una lunga controversia giudiziaria. Si tratta del corpus quasi completo delle opere del grande poeta. Non ci sono alcuni pezzi dell’epistolario, nella parte di lettere indirizzate da Giacomo Leopardi ad altri. Da anni la Biblioteca napoletana sta cercando di recuperarli attraverso indagini e acquisti mirati sul mercato antiquario.

Molo Beverello Napoli, lavori infiniti

L’aspetto attuale di via Acton è rappresentativo di come sono andate realmente le cose, a dispetto degli annunci fatti in estate. La strada appare ancora parzialmente occupata dal cantiere, aperta sì, ma schiacciata dalle transenne lato mare e dai corridoi per i pedoni, lato terra.

L’ultimo cantiere, in ordine di tempo, è nato per rifare le aree esterne del Molo Beverello, decisivo snodo marittimo dal quale partono gli aliscafi per le isole del Golfo: Ischia, Procida e Capri. Oltre alle grandi navi per la Sicilia, Ponza e Ventotene e alle mastodontiche imbarcazioni da crociera.

Un progetto nato per rendere il molo più funzionale

Il progetto prevede, tra l’altro, il completamento dei lavori di sistemazione esterna dell’area monumentale del Terminal passeggeri di Calata Beverello. Ultimo tassello per realizzare il “Nuovo Terminal Beverello. Il cantiere, però, occupai marciapiedi e la carreggiata su via Acton per la larghezza di un metro, garantendo le due corsie di marcia con una strozzatura proprio nei pressi di piazza Municipio.

Per gestire la viabilità, il Comune ha varato una apposita ordinanza con il piano traffico, la numero 342 del 23 giugno 2023 che istituisce tre percorsi pedonali protetti in via Acton, lato mare, dall’ingresso Terminal Beverello, in direzione galleria della Vittoria.

Consegna del nuovo Molo Beverello

Dovrebbe avvenire, salvo nuovi intoppi, entro la primavera con il collaudo dell’opera e l’ultimazione della gara per l’affidamento alla gestione. Un’apertura che decongestionerà piazza Municipio, centro nevralgico della Napoli turistica e lavorativa. La programmazione infrastrutturale in cui è rientrata l’opera è stata finanziata dal Pnc (piano nazionale complementare) e in parte dal Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza).

Il Museo di San Gennaro

Per la città il tesoro di San Gennaro è del Santo. Come se fosse il suo patrimonio posseduto in vita e lasciato in eredità ai suoi fedeli, in realtà il vescovo di Benevento non era particolarmente ricco e si mostrò sempre dalla parte degli umili e di giusti. A questo altruismo si deve la sua morte, durante le persecuzioni anti cristiane di Diocleziano, nella seconda metà del III secolo. In realtà si tratta dei doni dei fedeli, fatti realizzare apposta o affidati al Santo come ex voto.

Il vescovo di Benevento Gennaro, non ancora santo, conosceva bene il diacono Sossio, che guidava la comunità cristiana di Miseno, il quale fu incarcerato dal giudice Dragonio, proconsole della Campania. Gennaro saputo dell’arresto di Sossio, volle recarsi insieme a due compagni, Festo e Desiderio, a portargli il suo conforto in carcere. Dragonio, informato della sua intromissione, li fece arrestare provocando le proteste del popolo che dimostrava simpatia verso i prigionieri e, prevedendo disordini, il 19 settembre del 305 fece decapitare i prigionieri.

I Gioielli del Tesoro di San Gennaro, capolavori di inestimabile valore artistico ed economico, frutto della grande maestria e dell’arte degli orafi di Scuola napoletana, sono i manufatti che ricchi cittadini, devoti al Santo, hanno negli anni donato e sono custoditi nel cuore del centro storico di Napoli, al Duomo.

Mitra Museo San Gennaro
Mitra Museo San Gennaro

Si possono ammirare la meravigliosa Collana di San Gennaro, iniziata nel 1679, è composta di tredici grosse maglie in oro massiccio, dalle quali pendono croci tempestate di zaffiri e smeraldi. Sulla Mitra d’argento dorato, risalente al 1713, sono incastonati 3694 rubini, smeraldi e brillanti. Il Manto di San Gennaro è letteralmente coperto di pietre preziose e di smalti raffiguranti le insegne araldiche del casato. Il Calice d’oro, realizzato da Michele Lofrano nel 1761, è tempestato di rubini, smeraldi e brillanti. La Pisside, un calice con coperchio per le ostie, è in argento dorato ma è costellata di cammei e di decorazioni in malachite, così come la volle realizzare il famoso orafo Domenico Ascione di Torre del Greco, la patria del corallo lavorato.

Tesoro del Museo di San Gennaro
Tesoro del Museo di San Gennaro

Questi sono solo alcuni degli straordinari capolavori donati al Santo Patrono di Napoli ed esposti nel Museo del Tesoro di San Gennaro.

Un discorso a parte merita la Mitra gemmata, realizzata dall’orafo napoletano Matteo Treglia, nel 1712 su ordinazione della Deputazione della Cappella del Tesoro di San Gennaro. All’artista fu posta, però, una condizione: che la realizzazione della Mitra in onore del Santo Martire, fosse posta sul suo trecentesco busto reliquario, in tempo per la processione dei festeggiamenti che si sarebbero tenuti nell’aprile del 1713. Altrimenti non sarebbe stato pagato. Il maestro, però, si avvalse del contributo di tutti i migliori artigiani del Borgo degli Orefici di Napoli, che trasformarono la Mitra in una inestimabile opera collettiva composta in tutto da 3692 pietre, di cui 3326 diamanti, 198 smeraldi e 168 rubini. L’opera, consegnata in tempo, è completata da due ali adornate da gemme preziose nella loro parte anteriore e incisioni interne raffiguranti le ampolle e l’immagine di San Gennaro.

Fu Carlo II d’Angiò, a trovare una custodia per proteggere per l’eternità il sangue di San Gennaro, incaricando i maestri orafi francesi Stefano Godefroy, Guglielmo di Verdelay e Milet d’Auxerre di realizzare sia un busto-reliquiario in argento dorato per contenere sia la testa sia le ampolle con il sangue del santo.

Ma come nasce la tradizione del sangue di San Gennaro? Una donna molto credente di nome Eusebia avrebbe conservato due ampolline con il sangue del martire e, prima di morire, le avrebbe affidate alla Chiesa di Napoli. Il culto per il Santo si diffuse sempre di più con il trascorrere del tempo, per cui fu necessario l’ampliamento della catacomba che va da Capodimonte alla Sanità, dove veniva venerato di nascosto dal popolo. Affreschi, iscrizioni, mosaici e dipinti, rinvenuti nel cimitero sotterraneo, dimostrano che il culto del martire era vivo sin dal V secolo, tanto è vero che molti cristiani volevano essere seppelliti accanto a lui e le loro tombe erano ornate di sue immagini.

Storia e Significato delle Reliquie di San Gennaro

Va notato che già nel V secolo il martire Gennaro era considerato ‘santo’ secondo l’antica usanza ecclesiastica, canonizzazione poi confermata da papa Sisto V nel 1586. La tomba divenne meta di continui pellegrinaggi per i grandi prodigi che gli venivano attribuiti. Nel 472, ad esempio, in occasione di una violenta eruzione del Vesuvio, i napoletani accorsero in massa nella catacomba per chiedere la sua intercessione, iniziando così l’abitudine ad invocarlo durante le calamità naturali e le epidemie.

Nel 512, il vescovo di Napoli Stefano I, fece costruire in suo onore, accanto alla basilica costantiniana di Santa Restituta, prima cattedrale del capoluogo, una chiesa detta Stefania, sulla quale verso la fine del secolo XIII, venne eretto il Duomo. Qui furono riposte, nella cripta, il cranio e la teca con le ampolle del sangue. Questa provvidenziale decisione, preservò le suddette reliquie dal furto operato dal longobardo Sicone che, durante l’assedio di Napoli dell’831, penetrò nelle catacombe, asportando le altre ossa del santo che furono portate a Benevento, sede del ducato longobardo, solo in seguito restituite.

L’Arte e la Storia della Cappella del Tesoro

Nel 1646 il busto d’argento con il cranio e le ormai famose ampolline col sangue, furono poste nella nuova artistica Cappella del Tesoro, ricca di capolavori d’arte d’ogni genere. Le ampolle erano state incastonate in una teca preziosa fatta realizzare da Roberto d’Angiò, in un periodo imprecisato del suo lungo regno (1309-1343). La teca assunse l’aspetto attuale nel XVII secolo. Racchiuse fra due vetri circolari di circa dodici centimetri di diametro, vi sono le due ampolline, una più grande di forma ellittica schiacciata, ripiena per circa il 60% di sangue e quella più piccola cilindrica con solo alcune macchie rosso-brunastre sulle pareti; la liquefazione del sangue avviene solo in quella più grande. Le altre reliquie poste in un’antica anfora, sono rimaste nella cripta del Duomo, su cui s’innalza l’abside e l’altare maggiore della grande Cattedrale.

La Liquefazione del Sangue di San Gennaro

Il miracolo della liquefazione del sangue si compie tre volte l’anno: nel primo sabato di maggio, quando il busto ornato di preziosissimi paramenti vescovili e il reliquiario con la teca e le ampolle, vengono portati in processione, dal Duomo alla Basilica di Santa Chiara, in ricordo della prima traslazione da Pozzuoli a Napoli. Qui, dopo le rituali preghiere, avviene la liquefazione del sangue raggrumito.

La seconda avviene il 19 settembre, ricorrenza della decapitazione. Una volta, nella Cappella del Tesoro, ma per il gran numero di fedeli il busto e le reliquie sono oggi esposte sull’altare maggiore del Duomo, dove il cardinale arcivescovo, al cospetto di autorità civili e fedeli, attende che si compia il prodigio tra il tripudio generale.

La terza liquefazione avviene il 16 dicembre, in memoria della disastrosa eruzione del Vesuvio nel 1631, bloccata dopo le invocazioni al santo. Il prodigio così puntuale, non è sempre avvenuto, esiste un diario dei Canonici del Duomo che riporta nei secoli, anche le volte in cui il sangue non si è sciolto, oppure si è sciolto con ore e giorni di ritardo oppure, a volte, è stato trovato già liquefatto prima ancora di celebrare i riti propiziatori.

Museo e Certosa di San Martino

Da nessun punto della città sfugge allo sguardo, imponente e meraviglioso punto di riferimento per capire in un colpo d’occhio dove ci si trova senza dover leggere la toponomastica. La Certosa di san Martino è il faro di terra di Napoli.

C’era una vola solo una collina verde sulla parte alta della città dove intorno sorgerà quartiere Vomero e, nel 1325, da Siena fu convocato dalla Corte Angioina a Napoli l’architetto e scultore Tino di Camaino, già famoso per aver realizzato il Duomo di Pisa. Alla sua morte la certosa era solo in parte stata realizzata da Tino e l’incarico passò all’architetto Attanasio Primario. Dell’impianto originario restano i grandiosi sotterranei gotici, opera d’ingegneria possente indispensabile per sostenere l’edificio lungo le pendici scoscese della collina.

La Trasformazione Barocca della Certosa

Nel 1581, l’aspetto gotico previsto dagli architetti di Camaino e Primario lasciava il posto alla raffinata veste barocca di oggi. Il grandioso progetto di cambiamento della Certosa è affidato all’architetto Giovanni Antonio Dosio. Il Chiostro Grande per il crescente numero dei monaci subisce una radicale ristrutturazione e un ampliamento: si realizzarono nuove celle, si rivede l’intero sistema idrico. Il promotore di questa nuova e spettacolare veste della Certosa di San Martino è il priore Severo Turboli, in carica dall’ultimo ventennio del Cinquecento fino al 1607. I lavori avviati sotto la direzione di Dosio, vengono proseguiti da Giovan Giacomo di Conforto, che realizzerà la monumentale cisterna del chiostro.

I sotterranei gotici – risulta verosimile l’ipotesi che il progetto di Tino di Camaino, abbia inglobato preesistenti strutture di tipo difensivo dell’antico castello di Belforte – costituiscono i suggestivi e imponenti ambienti delle fondamenta trecentesche della Certosa. Si può ammirare una successione di pilastri e volte ogivali a sostegno dell’intera struttura certosina. I lunghi corridoi e gli slarghi ospitano le opere in marmo della Sezione di sculture ed epigrafi: circa centocinquanta opere in marmo, distribuite nei vari ambienti, partendo dal medioevo fino al XVIII secolo.

I sotterranei custodiscono un capolavoro del Settecento: l’imponente scultura di San Francesco d’Assisi (1785-1788 circa) di Giuseppe Sanmartino e un’Allegoria velata scolpita probabilmente dal suo allievo Angelo Viva, che evoca le celebri sculture della Cappella Sansevero.

Il 6 settembre 1623 segna un’altra importante tappa nella trasformazione della certosa. Comincia, infatti, la collaborazione con l’architetto Cosimo Fanzago che andrà avanti fino al 1656. Fanzago ha lasciato il segno inconfondibile della sua prepotente personalità in ogni luogo del monastero, pur rispettando e proseguendo, il progetto di ampliamento del monastero e di ammodernamento degli spazi monumentali avviato dai suoi predecessori. L’opera di Fanzago si caratterizza per una straordinaria attività decorativa. La carenza di marmi a Napoli comportò la continua importazione di marmi antichi di scavo da Roma, bianchi da Carrara, bardigli e broccatelli dalla Spagna, neri dal Belgio, breccia dalla Francia. San Martino diviene, negli anni ’20 e ’30 del Seicento, un luogo di eccellenza della sperimentazione dell’ornato dell’epoca. Tutta la decorazione della chiesa ne è un esempio, con gli splendidi rosoni di bardiglio che ornano i pilastri della navata, tutti diversi tra loro o gli intarsi marmorei delle lesene e i putti in chiave degli arconi delle cappelle.

Anche i lavori della facciata della chiesa, avviati nel 1616 da Tommaso Gaudioso si svolgono sotto la guida di Fanzago, che elabora soluzioni architettoniche che preservano le strutture trecentesche, rivestite esternamente di marmi.

La Storia della Certosa nel XIX e XX Secolo

Il complesso subisce danni durante la rivoluzione del 1799 ed è occupato dai francesi. Il re, inizialmente, ordina la soppressione per i certosini sospettati di simpatie repubblicane, ma alla fine acconsente alla loro reintegrazione. I monaci rientrano a San Martino nel 1804, ma la lasciano nuovamente nel 1812, quando il complesso viene occupato dai militari come Casa degli Invalidi di Guerra. Nel 1836 un esiguo gruppo di monaci torna a stabilirsi a San Martino per riuscirne, poi, definitivamente. Soppressi gli Ordini religiosi e divenuta proprietà dello Stato, la Certosa viene destinata nel 1866 a museo per volontà di Giuseppe Fiorelli, annessa al Museo Nazionale come sezione staccata ed aperta al pubblico nel 1867.

La Ricchezza delle Collezioni del Museo di San Martino

Farmacopea Certosa di San Martino
Farmacopea Certosa di San Martino

Il Museo di San Martino custodisce tesori inestimabili della storia artistica italiana e di Napoli. Inaugurata nella primavera del 2005, dopo complessi lavori di restauro la ‘Farmacopea’ o ‘Spezieria’ della Certosa è il luogo dove si somministravano le cure mediche alla comunità conventuale e al pubblico esterno. Nella volta della Farmacia, Paolo De Matteis eseguì, nel 1699, l’affresco con San Bruno che intercede presso la Vergine per l’umanità inferma.

Nella Sezione Navale si trovano vari modelli di imbarcazioni reali: due corazzate, la Corazzata Re Umberto e la Corazzata Regina Margherita, un’elegante Lancia reale ed un Lancione a ventiquattro remi che Napoli donò a re Carlo di Borbone. Inoltre vi è il Caicco donato dal sultano turco Selim III a Ferdinando IV di Borbone, databile alla seconda metà del XVIII secolo.

Nella Sala delle carrozze reali c’è la carrozza degli Eletti, la più antica della Città realizzata tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo per volere del Tribunale di San Lorenzo per trasportare gli Eletti della Città. Essa riveste un ruolo molto importante e emblematico per il popolo partenopeo in quanto è stata impiegata nelle più significative parate di Napoli, tra cui quella di Piedigrotta e la Processione del Corpus Domini. Altro pezzo forte la carrozza di Maria Cristina di Savoia, realizzata nel 1806 per Ferdinando I di Borbone, ma fu quasi certamente utilizzata anche da Gioacchino Murat nel periodo 1808-1815, quando fu nominato reggente del Regno di Napoli. Dopo la sua morte fu impiegata dal re Ferdinando II delle Due Sicilie e dalla sua prima moglie, Maria Cristina di Savoia, per partecipare alle feste civili e religiose.

Nella Sezione presepiale si trova il famoso Presepe Cuciniello, così chiamato dal nome del donatore che nel 1879 regalò al museo la sua monumentale raccolta di pastori, animali, agnelli, nature morte. Sono presenti anche altri gruppi presepiali, con scene fondamentali della Natività, dell’Annunciazione ai pastori e dell’Osteria, conservati nei loro originali contenitori: gli scarabattoli

Nella sala dell’appartamento del priore sono presenti preziosi affreschi, cineserie, pavimenti maiolicati settecenteschi e la galleria di dipinti del XVII secolo e XVIII con opere di Pacecco De Rosa, Andrea Vaccaro, Battistello Caracciolo, Artemisia Gentileschi, Micco Spadaro e Massimo Stanzione. Presente anche una raccolta di armi bianche e da fuoco, tra cui un cannone cinese del XVII secolo chiamato il Maresciallo dai miracolosi risultati.

Nucleo fondamentale del museo è la sezione storica che annovera testimonianze della storia politica, economica e sociale del Regno di Napoli attraverso dipinti, sculture, arredi, medaglie, miniature, onorificenze, armi e cimeli vari. Una delle più importanti testimonianze storiche sull’evoluzione topografica di Napoli è data dalla celeberrima Tavola Strozzi, quasi una fotografia della città nella metà del Quattrocento. Qui ci sono anche importanti pitture di vedute e siti reali; ritratti dei Borbone, documenti, monete, armi e dipinti di Filippo Spadai e Salvatore Fergola, tra cui la grande tela dell’Inaugurazione della ferrovia Napoli – Portici, nonché ricordi del 1848, con ritratti di Papa Pio IX e di personaggi del Risorgimento. Vi sono interessanti dipinti: di Micco Spadaro, l’Uccisione di Giuseppe Carafa del 1647; di Carlo Coppola, piazza del Mercato; di Micco Spadaro, La peste del 1656 ed il Largo del Mercatello; di ignoto invece Il tribunale della Vicaria al tempo di Masaniello e Piazza del Carmine. Un’intera sala è dedicata a Carlo di Borbone, che fu re di Napoli dal 1734 al 1759, poi re di Spagna. Essa contiene una serie di ritratti di Carlo di Borbone e della sua consorte Maria Amalia di Sassonia, tessuti in seta ad opera della manifattura napoletana; un ritratto di Carlo III re di Spagna, copia coeva di quello eseguito dal Goya. In un’altra sala vi sono i ricordi della Repubblica Napoletana del 1799: Ammiraglio Nelson di Leonardo Guzzardo; l’Entrata del Cardinale Ruffo a Napoli di Giovanni Ponticelli.

Nella galleria ottocentesca, sono esposti circa 950 dipinti della scuola di Posillipo, frutto di diverse donazioni che la borghesia napoletana ha effettuato nel corso degli anni, con dipinti di Francesco Netti, Michele Cammarano, Giacinto Gigante, Vincenzo Migliaro, Domenico Morelli, Eduardo Dalbono, Francesco Paolo Michetti, Giuseppe De Nittis e Antonio Mancini. Ancora sono conservati quadri di Frans Vervloet, Gabriele Smargiassi, Anton Sminck van Pitloo, Luigi Fergola, Gaetano e Giacinto Gigante, nonché dipinti della scuola di Resina con opere di Marco De Gregorio e Federico Rossano. Persino, l’arte contemporanea ha trovato spazio a San Martino. Va certamente segnalata quella dei fratelli Paolo e Beniamino Rotondo, che costituirono una collezione formata grazie agli stretti legami con alcuni artisti che frequentavano l’importante circolo culturale promosso dalla Famiglia Rotondo. Infine, sono esposte diverse sculture in terracotta di Vincenzo Gemito, di Giuseppe Renda e Filippo Tagliolini.

Nella Sezione delle arti decorative sono presenti maioliche, porcellane, vetri ed oggetti preziosi. Vi è inoltre esposta la collezione Orilia, comprendente porcellane di Capodimonte, Buen Retiro, Meissen, vetri, tabacchiere, ventagli ed altro, fu donata da Maria Teresa Orilia nel 1953, in ricordo del marito Marcello.

Nella Sezione teatrale si possono trovare quadri, stampe, disegni che si riferiscono al Teatro San Carlino; da notare inoltre è un quadretto che raffigura il Sipario del teatro S.Carlo del 1854, due magnifici plastici del teatro S.Carlino ed una bacheca con piccoli cimeli tra cui i biglietti da visita dei maggiori attori napoletani.

La Sezione Alisio costituisce l’ultima raccolta privata acquisita dal museo. Donata allo Stato da Giancarlo Alisio e dalle sorelle Alma e Giovanna nel 2001, questa è entrata a far parte del polo museale nel 2004, esponendo circa un centinaio (tra dipinti e acquerelli) di pitture vedutiste databili dal XVII al XIX secolo.

La collezione delle stampe e disegni si pone sullo stesso livello di quella del Capodimonte, esponendo circa sedicimila disegni, tra cui quelli di Luigi Vanvitelli, Giacinto Gigante, Antonio Niccolini, numerose scenografie del San Carlo, diversi ritratti di illustri napoletani e storiche stampe topografiche di Napoli.

All’interno del Complesso Museale di San Martino sono conservati tre orologi solari molto antichi, che scandivano il tempo dei certosini e favorivano le attività di preghiera contemplate dalla regola.

Museo di Capodimonte, nel cuore verde di Napoli

Nella maestosa Reggia di Capodimonte, protetta da giardini e alberi di alto fusto, concepita sin dall’inizio per accogliere la collezione Farnese dei Borbone di Napoli, divenne poi la loro residenza storica ed in seguito dei Bonaparte, dei Murat e dei Savoia. Fa parte dello stesso polmone verde: il Bosco di Capodimonte.

Il Museo, situato nella Reggia, ospita opere d’arte già dal 1758. L’esposizione è così suddivisa:

Galleria Farnese, con opere di Tiziano, Vasari, Masaccio, Sanzio e Botticelli.

Collezione Farnese Museo di Capodimonte
Collezione Farnese Museo di Capodimonte

La Collezione Farnese fu trasferita a Napoli da Carlo di Borbone, figlio di Elisabetta ultima discendente dei Farnese. Occupa l’ala orientale del piano nobile del palazzo voluto dal sovrano nel 1738, con l’intenzione di dare collocazione adeguata al ricco patrimonio ereditato. I primi elementi della collezione vi giungono grazie all’iniziativa di Alessandro Farnese, papa col nome di Paolo III, interessato anche alle antichità, oggi conservate al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, oltre che alle principali personalità artistiche del periodo chiamate a ritrarlo: da Raffaello a Tiziano a Guglielmo della Porta.

Un altro Alessandro, nipote di Paolo III e anch’egli cardinale, arricchisce le collezioni circondandosi di una schiera di artisti del calibro di Tiziano, El Greco, Giulio Clovio, Bertoja, Salviati e Guglielmo Della Porta, le cui opere costituiscono oggi la parte principale della raccolta.

Un terzo significativo nucleo va ad incrementare la collezione grazie alla donazione del colto bibliotecario Fulvio Orsini, consigliere di Alessandro, che nel 1600 unisce la propria raccolta d’arte e antichità, tra cui i preziosi cartoni di Raffaello e Michelangelo, all’attento collezionista cardinale Odoardo Farnese.

Nel 1611 Ranuccio I Farnese, duca di Parma e Piacenza, reprime spietatamente una congiura ai suoi danni, condanna a morte tutti i feudatari ribelli e ne confisca i beni: in tal modo pervengono nelle raccolte di famiglia capolavori di Andrea del Sarto, Giulio Romano, Correggio e Bruegel il Vecchio.

Collezione Borgia, suddivisa nelle sezioni antichità egizie, etrusche e volsce, greco-romane, romane, arte dell’Estremo Oriente, antichità arabe, manufatti etno-antropologici dell’Europa Settentrionale, dell’America centrale ed il Museo Sacro.

La Collezione Borgia si forma grazie all’impegno del colto cardinale Stefano Borgia, segretario della Congregazione di Propaganda Fide. Nel 1957 i manufatti d’arte medioevale e moderna, da lui raccolti, vengono destinati al Museo di Capodimonte, dove sono state ricomposte tre parti dell’originario allestimento: Museo Sacro, Arabo-Cufico e Indico. Originariamente, nel suo palazzo di Velletri Borgia aveva creato un museo, suddiviso in dieci classi di oggetti: antichità egiziane, volsche, etrusche, greche, romane, manufatti dell’Estremo Oriente, arabi, dell’Europa settentrionale, messicani e cristiani, ovvero il Museo sacro del Cristianesimo. Alla sua morte, il Museo di Velletri viene messo in vendita dal nipote, Camillo Borgia. L’accordo di acquisto, concluso nel 1814 con Gioacchino Murat, viene ratificato, in seguito alla caduta del governo napoleonico, nel 1817 da Ferdinando I di Borbone, che dispone il trasferimento delle raccolte nel Real Museo Borbonico, l’attuale Museo Archeologico Nazionale.

Appartamento storico, con due sale dedicate alla Galleria delle Porcellane.

Salone delle Feste Appartamento reale del Museo di Capodimonte
Salone delle Feste Appartamento reale del Museo di Capodimonte

L’Appartamento Reale, al primo piano del Museo di Capodimonte, fa rivivere gli ambienti di un palazzo storico che nasce come museo e che col tempo diventa una delle residenze dei sovrani. La storia della famiglia vicereale è raccontata nelle sale dedicate ai suoi principali protagonisti come Carlo di Borbone che decide la costruzione del palazzo nel 1738, Ferdinando IV che diventa re di Napoli a soli nove anni, Ferdinando II autore del completamento della reggia, fino al decennio francese e ai riallestimenti postunitari. Il palazzo diventa una più stabile residenza reale con l’arrivo di Carolina Bonaparte che adegua l’appartamento al gusto della corte imperiale, e Gioacchino Murat che realizza la strada di collegamento con il centro della città e si serve dell’opera di artisti del calibro di Antonio Canova, autore del ritratto in gesso di Letizia Ramolino Bonaparte.

L’edificio diventa oggetto di una radicale opera di rinnovamento a partire dal 1838, quando Ferdinando II decide di dargli una nuova veste. In questo periodo viene ultimata anche la decorazione del Salone delle feste con una lieve e fastosa decorazione pittorica di gusto neoclassico, come quella che adorna la camera da letto ‘pompeiana’ di Francesco I e Maria Isabella, collocata nell’ala meridionale, la più antica del palazzo, che si affaccia sul golfo di Napoli.

Con l’Unità d’Italia e la nomina del piemontese Annibale Sacco a direttore della Real Casa Savoia sono sistemate alcune sale e raccolte nel Museo di Capodimonte tesori provenienti da altre dimore borboniche come il prezioso Salottino di porcellana, trasferito qui dalla Reggia di Portici nel 1866, o il pavimento in marmo intarsiato rinvenuto in una villa dell’imperatore Tiberio a Capri in epoca borbonica e rimontato nel Salone della Culla, che deve il suo nome alla culla disegnata da Domenico Morelli (conservata nella Reggia di Caserta), donata nel 1869 dalla città di Napoli ai Savoia per la nascita di Vittorio Emanuele III.

Galleria delle Arti a Napoli, con opere di artisti partenopei.

La Galleria delle arti a Napoli dal ’200 al ’700 occupa quasi interamente il secondo piano del Museo e racconta la storia dell’arte a Napoli e nel Mezzogiorno in un arco temporale di oltre sei secoli che ha visto avvicendarsi svevi, angioini, aragonesi, viceré spagnoli e austriaci, e, da ultimo, i Borbone. Il percorso cronologico è costituito principalmente da opere di artisti napoletani e meridionali, non mancano però preziosi contributi di artisti provenienti da fuori che hanno lavorato nel regno o vi hanno inviato i propri manufatti.

Molte opere provengono da chiese e conventi napoletani e del Sud, anche grazie al collezionismo dei Borbone che hanno incrementato le raccolte d’arte in loro possesso attraverso acquisti mirati e confische seguite alle soppressioni di alcuni ordini monastici. Gli acquisti di opere, continuati dopo l’unità d’Italia, proseguono ancora oggi e in anni recenti sono entrati a far parte della collezione dipinti di Dirk Hendricksz, Luca Giordano, Pedro de Rubiales e Andrea Sabatini da Salerno. La prima parte della Galleria espone un piccolo gruppo di opere del periodo svevo e un più cospicuo nucleo angioino di cui fanno parte le tavole di Roberto d’Oderisio, del Maestro delle tempere francescane e soprattutto del senese Simone Martini. Il percorso prosegue con le sale del ’400, in cui spiccano i dipinti di Colantonio e di un altro senese, Matteo di Giovanni, che testimoniano la viva partecipazione della Napoli aragonese alla vicenda artistica internazionale.

Pregevole la presenza, accanto a pittori locali, di numerose opere di artisti non napoletani come Pinturicchio, Cesare da Sesto, Polidoro da Caravaggio, Vasari, Sodoma, Tiziano. Conclude simbolicamente questa prima parte la Flagellazione di Cristo di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio che all’inizio del XVII secolo segna uno spartiacque nella cultura figurativa napoletana, ponendo le fondamentali premesse per lo sviluppo della scuola pittorica locale.

La seconda parte della sezione è quasi del tutto dedicata al ’600, considerato il Secolo d’oro della pittura partenopea, dominato nella prima metà dal naturalismo caravaggesco che si ritrova tanto nelle tele di Battistello Caracciolo, Carlo Sellitto e dello spagnolo Jusepe Ribera, quanto nelle rimodulazioni classiciste di Artemisia Gentileschi, Simon Vouet e Andrea Vaccaro. Le aperture cromatiche di Massimo Stanzione e Bernardo Cavallino preludono al fiorire del barocco che si manifesta in città anche attraverso l’ampia diffusione della pittura di genere, con gli specialisti delle battaglie, tra cui Aniello Falcone e delle nature morte, annoveriamo Luca Forte, Giuseppe Recco, Giovan Battista Ruoppolo.

Segue il nucleo pittorico della collezione d’Avalos che introduce l’opera di uno dei massimi esponenti del barocco, il napoletano Luca Giordano, il cui luminoso virtuosismo è documentato dalle grandi pale d’altare delle sale successive. L’itinerario si conclude nelle sale dedicate a Mattia Preti e al ’700, dal rococò di Francesco Solimena e dei suoi seguaci fino al naturalismo illuminista e dissacrante di Gaspare Traversi.

Ottocento privato, con sette sale comprendenti dipinti del XIX e XX secolo.

L’Ottocento privato è ospitato nell’appartamento ad uso privato della corte, all’epoca dei Borbone e poi dei Savoia. Si trova al piano ammezzato cui si accede attraverso il monumentale scalone esagonale a doppia rampa, progettato dall’architetto Ferdinando Sanfelice. Negli spazi, con vista panoramica sul parco, sulla città e sul golfo di Napoli, si respira l’atmosfera accogliente di un elegante ambiente privato che conserva la memoria storica del passato insieme ad una pregevole galleria d’arte. Sette sale con oltre duecento opere tra dipinti, sculture, oggetti d’arredo in cui anche i tessuti e i tendaggi partecipano a ricreare preziose atmosfere, dagli ambienti dell’Anticamera alla Stanza da Scrivere, dalla Camera da Letto alla Stanza della Camerista, suggerendo una dimensione più intima, lontana dalla maestosità degli ambienti di rappresentanza dell’Appartamento Reale, al piano nobile del Palazzo.

Nel 1816 è l’appartamento di Ferdinando I e a metà secolo la nipote, Sua Altezza Reale la principessa donna Carolina, lo abita durante i suoi soggiorni a Napoli. Con i Savoia gli ambienti vengono destinati al ramo cadetto dei Duchi di Aosta, che lasceranno il Palazzo solo nel 1948, nonostante il passaggio della struttura al demanio risalga al 1920. La suddivisione delle opere in ambienti tematici consente di attraversare la storia dell’arte come in un viaggio e scoprire i cambiamenti del gusto e della cultura figurativa napoletana, dal neoclassicismo, citiamo: Raffaele Postiglione, Vincenzo Camuccini, Gennaro Maldarelli; alla scuola di Posillipo, con: Anton Sminck Pitloo, Giacinto Gigante, Gabriele Smargiassi, Teodoro Duclère; dalla pittura della seconda metà del secolo, ricca di storia: da Domenico Morelli a Vincenzo Marinelli; nuove visioni del paesaggio, con: Filippo Palizzi e Giuseppe De Nittis e della realtà, citiamo: Gioacchino Toma, Vincenzo Migliaro, Michele Cammarano, Teofilo Patini. E, ancora, gli orientalismi, con: Marco De Gregorio e Ettore Cercone; le ricerche cromatiche di Antonio Mancini e Francesco Paolo Michetti e le raffinatezze galanti di Giovanni Boldini; fino ad arrivare ai primi decenni del ‘900 con: Giacomo Balla e Pellizza Da Volpedo.

Le opere esposte sono pervenute al Museo per acquisto dei sovrani, sia borbonici che di Casa Savoia, ma anche grazie alle cospicue donazioni di illuminati collezionisti napoletani, come Alfonso Marino, Gustavo Toma, Maria Soulier Marsiconovo, Gaetano Vecchione, Giuseppe Cenzato e Angelo Astarita, negli anni Sessanta e Settanta. La sezione completa la galleria di opere dell’Ottocento al terzo piano del museo, il cui nucleo centrale si riallaccia al progetto, attuato subito dopo l’Unità d’Italia, di istituire a Capodimonte una Galleria di Arte moderna destinata ad ospitare opere di artisti viventi.

La Galleria dell’Ottocento si trova nello spazio recuperato nell’area dei sottotetti, dove è ospitata anche una piccola sezione di arte contemporanea, dedicata alle nuove tendenze delle arti a Napoli dal secondo dopoguerra agli anni Sessanta. Il nucleo ottocentesco confluisce a Capodimonte per l’attenzione rivolta dai sovrani di casa Savoia alla produzione artistica del tempo, secondo un orientamento già avviato dai Borbone. In seguito ci saranno nuove e importanti acquisizioni, molte delle quali dovute a donazioni di illustri collezionisti, come Alfonso Marino e Giuseppe Cenzato. In particolare, con Vittorio Emanuele II l’ampliamento della raccolta si avvale dell’operato di qualificati consulenti, come i pittori Domenico Morelli e Federico Maldarelli, mentre la Società Promotrice di Belle Arti, fondata a Napoli dopo l’Unità d’Italia, offre nuove occasioni promozionali ed espositive agli artisti.

L’attenzione al vero, declinato in tutte le sue forme, dalla pittura di storia allo studio della natura, fino alle sfere sentimentale e popolare, vede impegnata tutta la scuola pittorica napoletana: Domenico Morelli, Filippo Palizzi, Gioacchino Toma, Francesco Paolo Michetti, Vincenzo Migliaro. Nella sezione dell’800 sono presenti anche delle sculture, a testimoniare le tendenze artistiche che attraversarono Napoli, dal verismo: Vincenzo Gemito, Raffaele Belliazzi; al simbolismo: Luigi De Luca. La grande tela risorgimentale di Michele Cammarano, La Breccia di Porta Pia, fa da spartiacque tra la sezione ottocentesca e quella di arte contemporanea, esposta nella stessa sala.

Arte contemporanea, che accoglie il celebre Vesuvius di Andy Warhol.

Vesuvius di Andy Warhol
Vesuvius di Andy Warhol

L’Arte Contemporanea arriva al Museo di Capodimonte nel 1978 con la mostra personale di Alberto Burri, curata dal soprintendente Raffaello Causa e dal gallerista napoletano Lucio Amelio. L’artista realizza per Capodimonte il Grande Cretto Nero, che viene collocato, secondo il desiderio dell’autore, tra Caravaggio e i caravaggeschi. Negli anni successivi il museo collabora con alcune celebri gallerie napoletane, tra cui lo Studio Morra, la Galleria Rumma, lo Studio Trisorio, la Galleria Artiaco e, in maniera più duratura e continuata, con Graziella Lonardi Buontempo, fondatrice degli Incontri Internazionali d’Arte. Capodimonte accoglie così le mostre di artisti di fama internazionale come la personale di Andy Warhol nel 1985 articolata in una sequenza di dipinti dall’esuberante policromia, raffiguranti il Vesuvio in eruzione di cui il museo conserva oggi un esemplare. Con le donazioni degli artisti che si confrontano con gli spazi e le collezioni del museo, si allestisce, tra il secondo e il terzo piano, la sezione di Arte Contemporanea che documenta l’impegno civile e culturale di artisti italiani e stranieri come Giulio Paolini, Carlo Alfano, Daniel Buren, Joseph Kosuth, Michelangelo Pistoletto, Jannis Kounellis, Sigmar Polke e Mario Merz.

La Collezione d’Avalos è frutto di una donazione. Nel 1862 Alfonso d’Avalos, lascia in legato la sua raccolta alla Pinacoteca Nazionale di Napoli. La donazione, contestata dagli eredi, è oggetto di una lite giudiziaria che si conclude solo nel 1882 con il trasferimento delle opere al Museo Borbonico. La collezione si compone di ricami, miniature, stampe, armi e dipinti: dai paesaggi fiamminghi alla pittura devozionale di piccolo formato, dai grandi maestri del Seicento, quali Ribera, Pacecco De Rosa, Andrea Vaccaro, Luca Giordano, alle imponenti nature morte di Giuseppe Recco, Giuseppe Ruoppolo, Abraham Brueghel.

L’attuale allestimento rispecchia in parte la raccolta ordinata da Andrea d’Avalos principe di Montesarchio, il quale conferisce alla collezione una precisa fisionomia raccogliendo un cospicuo nucleo di pittura napoletana seicentesca, selezionando e commissionando dipinti dal forte valore decorativo, come le nature morte e le opere dai temi sensuali tratti dalla storia, dalla mitologia e dalla letteratura.

Il Gabinetto dei Disegni e delle Stampe comprende una raccolta di 2900 tra disegni e acquerelli e 24000 stampe all’incirca. Ad esso appartengono i celebri cartoni preparatori per affresco, riferibili a Michelangelo, a Raffaello e alle loro scuole, esposti nella Collezione Farnese al primo piano del museo, provenienti dalla raccolta del bibliotecario Fulvio Orsini, lasciata in eredità nel 1600 al cardinale Odoardo Farnese. Completano il nucleo Farnese della collezione i disegni di scuola parmense, bolognese e romana, circa 50 disegni dei più importanti artisti italiani del ‘500 e del ‘600 come il Parmigianino, Girolamo Mazzola Bedoli, il Bertoja e Sofonisfa Anguissola. Il patrimonio si accresce grazie alla politica di acquisti in età borbonica: oltre ai numerosi fogli di autori italiani, Ferdinando IV aggrega al fondo preesistente la collezione di 20518 tra disegni e stampe del conte trentino Carlo Firmian, ambasciatore imperiale a Napoli dal 1754 al 1758, nonché il nucleo di disegni indiani della collezione del cardinale Stefano Borgia. Dal 1957, le collezioni si incrementano ulteriormente grazie ai generosi lasciti dei privati, come la donazione Astarita nel 1970, costituita da oltre 400 tra acquerelli, matite ed oli su carta, in massima parte di Giacinto Gigante, esposta in parte e visitabile presso le sale espositive del Gabinetto Disegni e Stampe.

Il fondo di opere ottocentesche si è ulteriormente arricchito con l’acquisizione nel 2013 di una nuova collezione grafica, quasi un diario su carta dell’intero percorso creativo di Vincenzo Gemito. Della prestigiosa collezione, raccolta da Achille Minozzi, illuminato imprenditore napoletano, vicino all’artista, che ha protetto e sostenuto, salvando da probabile distruzione studi, schizzi, disegni, sculture, è possibile ammirare al secondo piano del museo una selezione di 80 disegni e 19 sculture. L’esposizione dedicata a Vincenzo Gemito presenta un’ampia selezione delle opere appartenenti alla Collezione Minozzi, acquistata nel 2013, composta da trecentosettantacinque pezzi tra disegni, sculture, bronzi, terrecotte e marmi, nonché alcuni esemplari in argento, che saranno sistemati negli spazi al piano nobile del palazzo adiacenti alla Sala della Culla nell’Appartamento Reale, dove sarà riproposto l’allestimento originario del Salotto Minozzi, con i disegni esposti nella boiserie progettata dal collezionista insieme all’artista.

L’allestimento ripercorre l’intera esperienza artistica di Gemito: dal ritratto in terracotta di Maria la Zingara (1881 ca.), a quelli in bronzo di Domenico Morelli (1873), Giuseppe Verdi (1873 ca.) e Mariano Fortuny (1874), alle opere ispirate al mondo classico, come la Psiche, dall’esemplare del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, il Filosofo e la maschera di Alessandro Magno.

Infine, una selezione di disegni relativi ai temi più noti della produzione di Gemito, come il Pescatore, l’Acquaiolo, l’Arciere, oltre ad alcuni schizzi per il famoso Trionfo da tavola che il re Umberto I di Savoia gli commissionò proprio per Capodimonte, il cui bozzetto in cera è esposto in una sala della sezione Ottocento a Capodimonte.

La collezione dei Manifesti Mele, tra le più grandi realtà industriali e commerciali a Napoli nella Belle Époque, è stata donata al Museo di Capodimonte dagli eredi di Emiddio e Alfonso Mele fondatori de “I Grandi Magazzini Italiani”, inaugurati nel 1889 in via San Carlo a Napoli e attivi, a livello internazionale, nei settori della moda e del lusso, fino alla chiusura del 1932. La raccolta si compone di trentadue eleganti manifesti pubblicitari di grande formato, commissionati ai maggiori artisti del periodo, che raccontano il gusto e lo stile di un’epoca tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento.

Illustratori e disegnatori di notevole prestigio hanno collaborato alla realizzazione delle affiches, tra questi: Achille Beltrame, Pier Luigi Caldanzano, Leonetto Cappiello, Marcello Dudovich, Franz Laskoff, Gian Emilio Malerba, Achille Luciano Mauzan, AldoMazza, Leopoldo Metlicovitz, Enrico Sacchetti, Aleardo Terzi e Aleardo Villa, i quali, seppur con diverse interpretazioni stilistiche, hanno seguito le indicazioni del committente, enfatizzando la raffinatezza dei capi d’abbigliamento.

Una sala del Museo di Capodimonte è dedicata all’Armeria farnesiana e borbonica, uno dei più importanti esempi di collezionismo del genere: si compone di un nucleo originario più antico appartenuto alla famiglia Farnese e alle sue guarnigioni (XVI e XVII secolo) e di un nucleo collezionato dai Borbone di Napoli (XVIII e XIX secolo). Al primo gruppo appartengono armi da fuoco, da taglio e da difesa, armi bianche, spade e pugnali, armi da botta, armi in asta, armature e guarniture da guerra e da torneo, queste ultime incise all’acquaforte e parzialmente dorate, appartenenti ai membri di casa Farnese. La maggior parte degli armamenti è realizzata da abili armaioli milanesi, attivi tra il Cinquecento e il Seicento, tra cui il famoso Pompeo della Cesa. La collezione conserva un valore altissimo malgrado danni e dispersioni subiti in seguito all’occupazione napoleonica.

Ai maestri armieri, fra i quali spiccano Michele Battista, Emanuel Estevan, Carlo La Bruna, Biagio Ignesti, Natale del Moro, spettano una serie di pezzi che risentono dell’influenza dei modelli spagnoli. Fanno parte della raccolta anche fucili e pistole delle fabbriche inglesi e francesi, donate ai sovrani: fra questi va segnalata la coppia di pistole a fucile firmate da Jean Baptiste La Roche, celebre armaiolo al servizio di Luigi XV di Francia, dono offerto dai reali di Francia a Carlo di Borbone, in occasione della nascita del figlio Ferdinando nel 1751.

Le armi bianche, le spade e le daghe provengono invece dalla Real Fabbrica o dalla Fabbrica degli Acciai, quest’ultima collocata nella palazzina, già della porcellana, nel Bosco di Capodimonte, dal 1782. Sono inoltre presenti alcuni esempi di modellini da guerra utilizzati dalla scuola di artiglieria del regno.

Apparentia, la lampada-quadro made in Italy

Quando è spenta è una tela bianca incorniciata. La sorpresa arriva tirando un cordino e Apparentia” si illumina e si svela per quella che è: un pezzo di arredamento artistico dal design accattivante e una funzionale lampada a parete. Anche hi tech, a richiesta. Visto che è possibile accenderla chiedendolo ad Alexa o a Siri, può essere programmata e se ne può regolare l’intensità.

“La tela include un elemento che per noi rappresenta il collegamento tra passato e futuro, tra classicità e innovazione. Unito alla esigenza in qualunque ambito professionale di utilizzare lo spazio in modo razionale. L’incontro ideale tra design e innovazione”, spiega Caterina Gicometti, nel team di progettazione e realizzazione insieme ai fratelli Enzo e Carlo e alle sorelle Linda ed Elvira.

“Arreda e allo stesso tempo illumina i tuoi spazi!” è il claim di lancio di un prodotto che non è solo made in Italy ma, anche è soprattutto, frutto dell’impegno e della creatività tutta meridionale della famiglia Giacometti, fondata da Alfredo. “Abbiamo immaginato Apparentia in ambienti molto diversi tra loro: appartamenti, hotel, uffici. Potendosi adattare ad ogni esigenza. Questo è il risultato di un lungo lavoro artigianale, quindi, che ha ottenuto il brevetto di innovazione tecnologica”, sottolinea Carlo.

Divisa in collezioni, si può scegliere trai i modelli “Classic”, con diversi cambi di cornice; ”City” con edifici o monumenti iconici delle più belle città italiane; “Brand”, con la rappresentazione del logo. Infine, “Line Art”: pezzi unici non riproducibili, il primo dei quali è stato realizzato con una cornice intagliata interamente a mano del ‘700 Napoletano, pervenuto da un restauro.