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Autore: Mattia Serrone

Food blogger, pagati per consumare al ristorante

Attraverso percorsi gastronomici, i Food blogger recensiscono un locale, solitamente facendolo in prima persona e venendo pagati con una somma di denaro stabilita prima di svolgere la mansione. Il ruolo del food blogger consiste nel garantire visibilità ai locali mediante i propri canali social, così da influenzare i propri followers, a tal punto da farli invogliare nel provare un posto nuovo.

Il lavoro dei sogni

Avviene tutto mediante un video che può durare dai 30 ai 60 secondi. I video si aprono con un piccolo storytelling del locale e fornendo informazioni su dove è ubicato, per poi passare subito all’assaggio dei prodotti, commentandoli con aggettivi sintetici. Solitamente si conclude con uno slogan ripetuto ogni volta, così da aumentare la riconoscibilità ed effettuare una vera e propria associazione tra claim e personaggio. Questa attività è definita da molti come il lavoro dei sogni: a chi non piacerebbe mangiare prodotti “foodporn” e guadagnare modeste cifre di denaro in cambio?

Un fenomeno da gestire

Il ruolo del food blogger, nell’era dell’evoluzione digitale e del marketing associato all’uso dell’ ICT,  è molto delicato. Purtroppo, chiunque abbia un pugno di followers di qualsiasi settore, si definisce tale pur di guadagnare una somma economica. Sono, soprattutto, i nuovi locali quelli che si affidano maggiormente a star dei social pur di promuovere i propri punti ristoro. La criticità sta, però, nell’omologazione di queste strutture ristorative a un trend non sempre salutare: pietanze eccessivamente abbondanti, con la presenza di junk food che contengono una quantità smisurata delle cosiddette calorie vuote. Non a caso i dati dell’Istituto Superiore della Sanità riferiti al peso e altezza portano a stimare nel biennio 2020-2021 che il 43% della popolazione adulta è in eccesso ponderale, ovvero il 33% è in sovrappeso e il 10% è obeso. In questo panorama la Campania spicca per lo storico primato di regione con la più alta prevalenza di persone in eccesso ponderale (50,6%), ovvero il 38% in sovrappeso e il 12% obesa nel biennio.

Lo street food napoletano: un fenomeno gastronomico

Napoli in questi anni ha saputo accogliere al meglio l’affluenza turistica che l’ha assediata e lo ha fatto evolvendosi, studiando e attuando, nonché riproponendo, nel miglior modo possibile, quella cucina tanto povera ma al contempo tanto decantata da personaggi di fama quali Vincenzo Corrado, nonché lo studioso Ancel Keys, della traduzione.

Inventiva Napoletana

L’idea funzionale è stata proprio quella di utilizzare al massimo ingredienti come ortaggi, legumi e grano, con prezzi mediamente modesti, esaltando al massimo il loro saporo. Il vero e proprio savoir-faire dei napoletani, nonché la fonte del reddito, è proprio lo storytelling, l’esposizione, e lo stesso gioco di parole derivate dal dialetto napoletano, che incuriosisce il turista a scoprire e ad abbandonarsi a trecentosessanta gradi in questa immersione culturale.

Napoli, al giorno d’oggi, non è più esclusivamente “la città della pizza del sole e del mandolino”, ma adesso si fa forza di un genere molto più ampio che trova forse la sua massima realizzazione proprio in quel ragù domenicale ancor oggi preparato. La chiave di volta sono i piatti poveri, parte integrante della tradizione, offerti però in una maniera rivisitata. La gente accorre da ogni angolo del mondo pur di degustare la cucina napoletana, nonché la pizza stessa, ovviamente. Questo prodotto, però, è forse quello che ha subito il più drastico dei cambiamenti. Anche la pizza, infatti, si è vista investire da quella riforma che la stessa cucina aveva subito trent’anni or sono: l’introduzione del termine e del concetto di gourmet. Ebbene questo fenomeno ha diramato la visione della pizza, dividendola così in due macro-arie: la pizza a “ruota di carro” e la nuova versione di pizza 2.0, detta anche “pizza a canotto”.

La prima versione è quella storica e che tutt’oggi viene offerta nella medesima forma, nella pizzeria centenaria Da Michele, con una filosofia ben precisa: datosi che l’offerta della pizza a “ruota di carro” si limita alle due pizze di margherita e marinara, l’idea vuole essere quella di trasmettere la continuità di una tradizione che ha un legame quasi viscerale con questo popolo. I cultori di questa tipologia di pizza ritengono inoltre impropria la seconda versione. La pizza 2.0 infatti, nasce invece con l’idea di creare qualcosa di sofisticato nonché provare a dare un tocco di  innovazione in termini di impasto con la sua alta idratazione e digeribilità. Questa versione è volta ad offrire percorsi di degustazione, attraverso pizze con condimenti studiati e ricercati, con l’obiettivo di affascinare e stupire il commensale grazie l’exploit di sapori (Mattozzi & Mattozzi, 2021).

Lo street del food napoletano

L’evoluzione culinaria però non si è limitata solo a questa categoria ed ha investito anche tutta Via Toledo, la famosissima via del centro storico di Napoli che potrebbe essere definita  “Via del fritto” per la quantità di street food li presenti. I crocche, i cuoppi di alici e gamberetti, le frittatine, qui, in questa via, la fanno da padrone; per non parlare poi delle pizzette e delle montanare. Il tutto rigorosamente fritto in un vero e proprio peccato di gola, piacere che, almeno una volta nella vita, bisogna togliersi. Altro settore che ha altrettanto saputo crearsi il proprio spazio è quello della pasticceria napoletana. Sfogliatella e babà sono i capostipiti indiscussi, ed in alcuni casi, sono anche offerti in una maniera totalmente innovativa (profana per i più innovativi). 

È questo il caso della sfogliatella salata del brand “Cuori di sfogliatella” che ha saputo diversificare il mercato. Ciò che ha preso realmente quota però sono i fiocchi di neve di “poppella”, una pasta brioche molto soffice con crema dagli ingredienti sconosciuti ed una spolverata di zucchero a velo. Nonostante sia un prodotto nato durante la Seconda guerra mondiale nei rifugi sotterranei, è negli ultimi anni che ha preso valore.

Ritorno alle origini

Il dulcis in fundo lo si deve poi alla riscoperta della “gassosa a coscie aperte” un vero e proprio toccasana per uno stomaco allo stremo delle sue capacità. Una bevanda fatta di acqua, succo di limone, con un pizzico di bicarbonato, aggiunto all’ultimo dall’acquafrescaio con un gesto veloce e deciso, e poi servito in fretta al cliente, che deve sbrigarsi a prendere posizione per evitare che la reazione tra limone, acqua gassata e bicarbonato faccia fuoriuscire tutta la bibita. È chiamata così per via della posizione che bisogna assumere perché il bicchiere colmo fino all’orlo non si rovesci sui pantaloni tocco magico degli acquafrescai[1](www.gamberorosso.it), in grado di sturare le vie metaboliche e riequilibrare lo stomaco. Ritrovata la lucidità, ma rimasta la stanchezza, la si può poi risvegliare con quella “tazzulell’ ‘e cafè” cantata dall’egregio Pino Daniele.


[1] Acquafresciaio: venditore di acque e di diversi tipi di bevande

Cucina napoletana, quando cucinare è “arte”

La memoria del cibo è strettamente legata dai nostri ricordi personali racchiusi nella nostra mente, in una rete emozionale. Molto spesso capita che questi ricordi vengano tramandati a tal punto, da diventare parte integrante della tradizione.

Un viaggio nel passato

Bartolomeo Bimbi, Pere di giugno e di luglio, del 1699

La memoria della gastronomia napoletana la riscontriamo in molteplici affreschi situati nei maestosi musei a ciel aperto di Pompei, Ercolano, ma anche nei musei del centro storico di Napoli. I frutti sono i principali protagonisti di queste opere, ricordiamo infatti, l’opera di Bartolomeo Bimbi, Pere di giugno e di luglio, del 1699, o Carlo Manieri detto Maestro della Floridiana, nel Trionfo di fichi adagiati su un velluto rosso cardinalizio che ricorda quello del cardinale Pietro Bembo. Ma se la frutta indebolisce l’investigatore, la fauna ittica mediterranea, gli infonda forza. Lo si deve proprio all’opera di Giuseppe Recco e Giovan Battista nell’affresco Pesci e Ostriche, dove Orate, sgombri, tonnetti, aragoste, polpi, tartarughe e calamari, sono i protagonisti.

Presepe di Michele Cuciniello

È doveroso raccontare lo stretto legame tra artefatti e cucina, come quello ancor oggi presente che si ha nel presepe, in particola modo il presepe di Michele Cuciniello, situato nel Museo di San Martino. Esso venne definito la perfetta dimostrazione dell’abbondanza che fosse presente all’epoca, descritto poi anche da Leandro Fernandez Moratìn, come una sorta di estetizzazione del mercato, e di sacralizzazione del cibo (Moro & Niola, 2017). Questo trionfo di gola, elogia tutte le leccornie dell’epoca, consumate principalmente nei giorni di festa. Ancora oggi evincono delle correlazioni con le usanze odierne, infatti è solito constatare nelle famiglie napoletane, seppur di dimensioni e grammature elevate, di consumare o pezzullo e baccalà, proprio perché all’epoca era di diritto-dovere, consumare “uno di tutto”.

Una città vista mare

Una città vista amare con annessa la possibilità di fare una passeggiata gastronomica adatta a tutte le tasche. Pizze, spaghetti ai frutti di mare, zeppole di alghe fritte, alici, verdure ripiene, insieme a friarielli, zucchine, carciofi, fiori di zucca, che in mano ai napoletani, diventa quasi il piatto principale, anziché un semplice contorno. Per capire questa città bisogna muoversi a piedi ed ammirarla, vicolo dopo vicolo. Gli stessi Oscar Wilde, Matilde Serao, Gabriele D’annunzio erano soliti sostare nello scintillo liberty del Gambrinus (Moro & Niola, 2017). Ma non si può dire di conoscere la città se non si fa un’incursione nei Quartieri Spagnoli, dove ancora oggi si può percepire il profumo del ragù dominicale che pippea, un piatto tipicamente festivo, preparato nelle piccole abitazioni a piano terra, noti con il termine napoletano di “o vascio” preparato dalle famiglie proletarie. È obbligatorio citare una delle poesie più note al riguardo, ovvero quella di Eduardo de Filippo:     

 ‘O rraù ca me piace a me                                Il ragù che piace a me

 m’ ‘o ffaceva sulo mammà.                              Me lo cucinava solo mia madre

 A che m’aggio spusato a te                              Da che ti ho sposata

ne parlammo pè ne parlà                                  Ne parliamo tanto per fare una cosa. Questo ci permette di capire quanto il senso della vita stessa girasse intorno al cibo. Se il ragù rappresenta l’inizio delle danze a tavola, il caffè incarna invece quella che è la fine, rigorosamente a tavola, in quella convivialità tanto decantata, condividendo momenti e stringendo ancor di più legami. A Napoli sulla via del caffè sospeso, ovvero l’antica usanza di consumare un espresso e pagarne due, lasciando il secondo a disposizione dei meno fortunati, nasce il modello di pizza sospesa, proprio perché il caffè come la pizza, non si nega a nessuno. Caffè e pizza napoletana sono i fondamenti del fenomeno dello street food napoletano, un sinonimo di socialità e solidarietà, storia e genialità gastronomica.

La pizza fritta: l’oro di Napoli                       

La pizza fritta è uno dei tanti street food napoletani, radicati oramai da secoli, nella cultura partenopea. La sua origine risale a periodo del dopoguerra. 

Napoli si reinventa                                                                   

Durante la Seconda guerra mondiale, Napoli venne bombardata dai tedeschi, distruggendo così grande parte del centro abitato, e botteghe annesse. La perdita più dura però, fu proprio legata ai forni a legna, dai quali si sfornavano le pizze napoletane, che all’epoca erano fonte di sostegno per il popolo. La città era in balia del caos, non troppo distante, da possibili “pesti e carestie”, che fortunatamente non arrivarono mai, grazie all’inventiva delle donne napoletane, che idearono quella che noi oggi definiremmo pizza fritta; lo stesso impasto della pizza napoletana, ma piuttosto che essere cotta nel forno a legna, essa veniva, come d’altronde tutt’oggi fritta nell’olio. Questa prelibatezza, di color oro, fu un’ottima alternativa, oltre ad aumentare visivamente il senso di sazietà dei napoletani, dettata dalla sua voluminosità, dovuta proprio alla tecnica di cottura.

Pizza fritta “made in Quartieri Spagnoli”

L’epicentro di questa pietanza, sono sicuramente i rioni popolari di Napoli, tra cui i Quartieri Spagnoli. Qui, precisamente in Via Speranzella, l’anima autentica dei quartieri dove, fra panni stesi, ragazzini che giocano e motorini che sfrecciano, si può rivivere dell’aria Andalusia l’odore delle sue friggitrici di strada; si capisce perché Montesquieu disse: ”a Napoli il popolo è più popolo che altrove”. Tutt’oggi la pizza fritta è parte integrante della nostra cultura, incorporando aspetti della dieta mediterranea, come la convivialità. Consumare questo prodotto nei vicoli napoletani, preparati dalle nonne partenopee, in quelli che secondo la dialettica locale sono definiti “vasci” permette ai turisti di congiungersi col cuore della città.

La storia delle tre “P”

Questa leccornia, viene consumata come da tradizione con la farcia delle tre “p”, ovvero provola, pomodoro e pepe. Col passar degli anni, ci sono state tante varianti, soprattutto col boom economico, che ha portato nella vita della prole, alimenti che fino ad all’ora potevano essere solamente immaginati. Da quel momento si iniziò ad aggiungere alla squisitezza partenopea ciccioli di maiale e ricotta, due ingredienti che non sono più usciti dal cuore dei napoletani. Puoi allontanare un napoletano dalla pizza fritta, ma non potrai mai allontanare una pizza fritta da un napoletano.

Le Tore: dall’agricoltura al turismo sostenibile

Le Tore, Azienda Agricola Biologica, Agriturismo e Bed and Breakfast, a Massa Lubrense, Sant’Agata dei due Golfi, è una masseria dell’800 sospesa fra l’azzurrità infinita di un cielo a due mari, che mantiene integra la ruralità e lo splendore georgico di questo luogo incontaminato adibito oggi come azienda agricola locale.

Ritorno al Passato

Dal 1995 i terreni sono coltivati in regime di agricoltura biologica, presentando oliveti, meleti, vigneti e orti. La produzione dell’azienda è incentrata principalmente su olio DOP Penisola Sorrentina, vino DOC, frutta, ortaggi e prodotti homemade. La qualità del prodotto è indiscussa quando alla base coesiste una forte conoscenza dei processi produttivi ed una continua evoluzione del settore dell’agronomia. Trascorrere un week-end in un’una struttura del genere, significa lasciarsi trasportare in un’epoca trapassata, affiorando ricordi e suggestioni di un tempo oramai andato, ahimè lontano dalla visione progressista del nostro secolo. Soggiornare in questi territori paesaggistici e naturalistici, permette al visitatore stesso di ricongiungersi con “Madre Natura” dimenticando per un attimo quella che è l’urbanizzazione quotidiana, rammentando valori ed aspetti campestri.

Valori Astratti

Gli aspetti utopici di questa meta sono certamente un punto di forza, il solo pensiero di trovarsi in uno dei territori più seducenti dell’intero pianeta, lo rende già di per sé raro e difficile da imitare. Lo stesso Norman Douglas, rinomato scrittore britannico, ne decanta le sfaccettature uniche nel suo libro “la terra delle sirene”. Svegliarsi col rumore delle cicale, respirare aria pura, passeggiare lungo le vie dei monti lattari, essere in lunghezza d’aria, vicini a località come Positano, Amalfi, Nerano, aumenta certamente il valore. L’espressione più affascinante però è, al calar della sera, quando si è tutti a tavola insieme, davanti a del buon cibo e vino a “metro” 0, magari con una chitarra portata con sé, per rivivere a pieno come anche la famosa Gianna Nannini ci rammenta, una di quelle “Notti magiche sotto il cielo di un’estate italiana”.

Una visione verso il futuro

Le Tore a Sorrento

L’azienda si impegna a tutelare l’ambiente mediante collaborazione con il FAI (Fondo Ambiente Italiano) e con la proprietà FAI della Baia di Ieranto. Adotta un turismo ecosostenibile, con uno sguardo al futuro, con tecniche agronomiche innovative e mirate. Sarebbe bello vedere iniziative, come fattorie didattiche, congressi e tour itineranti per la penisola sorrentina. È importante quindi la cooperazione da parte delle altre attività, intraprendendo un percorso di crescita insieme, verso un’unica direzione, la valorizzazione di questi luoghi fatati.

Eruzione del gusto

Eruzione del gusto è il nome dell’evento tenutosi dal 7 al 10 ottobre all’interno del museo nazionale di Pietrarsa, nonché la prima ferrovia dello stato inaugurata il 3 ottobre 1839 durante l’epoca del Regno delle Due Sicilie. Inizialmente la tratta era lunga 7.411 metri e congiungeva Napoli a Portici, dov’era situata la dimora borbonica.

Un viaggio che parte dalla Campania

Degustazioni all'Evento del Gusto

Questa manifestazione è stata organizzata da Oronero un’Associazione nazionale senza scopo di lucro, democratica, di promozione culturale e sociale. Oronero promuove lo scambio culturale tra i popoli per lo sviluppo economico pacifico, ponendo centralità a quelli che vivono nelle aree Vulcaniche del pianeta, promuovendo i valori, le peculiarità, la ricchezza ambientale delle Terre Vulcaniche e delle aree Marine Vulcaniche. Partendo dal Vesuvio, promuove l’incontro con altri popoli e tutte le possibili relazioni e le forme di simbiosi che nel corso del tempo essi hanno sviluppato con il Vulcano. Le collaborazioni sono state molteplici, dal dipartimento di agraria della Federico II, il CREA, BIE, comune di Napoli, regione Campania e tante altre.

Tra i piaceri della gola dei popoli del Mediterraneo

Un viaggio “saporito” accompagnato da un racconto esplicativo dei “vizi” culinari, dove si è potuto degustare prodotti tipici accompagnati dalla suggestiva atmosfera che si respirava all’interno del museo. Un’esperienza sicuramente formativa dove si è potuto conoscere tante realtà consolidate negli anni, ma anche tante piccole imprese che si sono volute mettere in gioco con iniziative innovative e sostenibili. Questi quattro giorni sono stati un ottimo modo per contribuire a costruire una nuova consapevolezza della cultura alimentare, favorendo le produzioni agroalimentari d’eccellenza.  Eruzione del gusto è stato uno spazio dove celebrare, attraverso il cibo, il sapere degli uomini, la cultura dei popoli e la loro diversità.

La storia attraverso i prodotti

I temi trattati sono stati molteplici, come le figure alle quali è stato chiesto di intervenire nei vari dibattiti. Il settore dell’enologia è stato trattato da Luigi Moio, presidente mondiale dell’OIV, mentre a Tommaso Luongo Presidente AIS Campania è stata affidata la masterclass. È stato possibile anche assistere a degli show cooking come quello del docente universitario Raffaele Sacchi, accompagnato dai su ex alunni. Molto toccante il momento delle premiazioni, dove sono state omaggiate ad honorem delle targhe all’attuale rettore della Federico II, nonché promotore del neo-corso di laurea “Scienze Gastronomiche Mediterranee” ad Alfonso Iaccarino e Gennaro Esposito, due pietre miliari della storia gastronomica campana. Queste attività formative rappresentano lo stimolo giusto per continuare in questa direzione, per un mondo più sostenibile e territoriale.

Oktoberfest a Napoli tra birra, cibo, musica e divertimento

L’oktoberfest è un festival popolare svolto a Monaco di Baviera, in Germania, nonché la più grande fiera del mondo con circa 6/7 milioni di turisti ogni anno. L’evento si svolge nell’arco di 16 giorni, ma in alcuni casi può durare anche 17/18 giorni. La città si prepara a vivere un momento di festa, allestendo stand, lunapark e servendo le sei marche di birra storiche (Paulaner, Spaten, Hofbräu, Hacker-Pschorr, Augustiner e Löwenbräu).

Oktoberfest: la Storia

Questa tipica usanza bavarese nasce intorno al 1810, in occasione dell’unione tra il principe ereditario Ludwig e la principessa Therese, che li vide partecipare ai lunghissimi festeggiamenti. Bisogna aspettare però il 1819 affinché la si potesse definire una festa annuale. Col passar degli anni il numero di attrazioni aumentò, un esempio è la “statua della Bavaria”, alta all’incirca 20 metri. Oggi giorno possiamo constatare che questa festività ha esteso i suoi confine, divenuta iconica e festeggiata ovunque.

Oktoberfest a Napoli Centro Direzionale

Una festa locale, diventata mondiale

Tra i tanti palcoscenici, anche Napoli apre le danze all’Oktoberfest. Da mercoledì 5 a domenica 9 ottobre, 60 stand tra birrifici nazionali ed internazionali, di prodotti tipici bavaresi e della tradizione italiana animeranno il cuore moderno della città, il centro direzionale. l’Assessore Enrico Panini dichiara: “Stiamo lavorando affinché la città di Napoli sia sempre più palcoscenico di eventi enogastronomici durante tutto il corso dell’anno, coinvolgendo non solo le piazze e le strade più conosciute e frequentate del centro ma valorizzando anche le aree più periferiche.
Gli eventi legati al cibo e alle eccellenze agroalimentari della nostra terra si rivelano essere grandi occasioni di sviluppo economico per la città. Parole importanti quelle appena lette, che ci fanno intendere su quanto Napoli sia in fase di crescita, soprattutto su quanto la distanza da Monaco seppur elevata, venga abbattuta con l’aria tedesca che si respirerà nella metropoli campana.

La Birra è unione

“Se uomo ama donna più di birra gelata davanti a tv con finale di champions forse è vero amore, ma non vero uomo.” Questa frase molto spesso attribuita al calciatore e allenatore di calcio jugoslavo Vujadin Boškov, ci fa riflettere su quanto l’uomo abbia un rapporto intrinseco con questa bevanda. La sua scoperta risale circa ai tempi degli egizi; questa bevanda ha subito circa 5000 anni di peripezie, nonostante ciò, resta il prodotto più consumato vicino alla nostra iconica pizza napoletana. La birra è una bevanda alcolica, il quale abuso come per tutto, può portare a condizioni gravi, ma che in dosi ragionevoli, è in grado di regalare alle papille gustative dei consumatori stessi, momenti di estasi, soprattutto se abbinato ai piatti giusti.
Concludo proprio con una frase ricorrente del popolo egizio, inventore di questo eccellente prodotto:” La bocca di un uomo completamente felice è piena di birra.”

Festa dei nonni: l’influenza nella gastronomia

Il 2 ottobre la società urbanizzata si è apprestata a vivere un altro trend, la festa dei nonni, un doveroso riconoscimento, con l’intento di ripagare tutti gli insegnanti di vita trasmessi senza mai chiedere nulla in cambio, soprattutto se si parla di cucina.

Dove ci sono i nonni, c’è un pasto caldo, dove c’è un pasto caldo c’è casa.

A chi non è mai capitato di avere una giornata no, andare a casa dei propri nonni, consumare il proprio piatto preferito rigorosamente fatto in maniera tradizionale, dimenticando per un attimo ciò che ci passa per la mente? La cucina è sicuramente la dimostrazione d’affetto più grande che ci possa essere, dice in una intervista lo chef Antonino Cannavacciuolo, alla quale non possiamo fare altro che confermare questa  tesi.

l’influenza dei nonni nella gastronomia

Nell’evoluzione della gastronomia campana, c’è sicuramente tanta contaminazione dei nostri cari nonni; se solo si pensasse alle nuove generazioni ed ai nuovi format di cucina, potremmo intravedere quanto la cucina rivisitata odierna, altro che non è, una cucina tradizionale evoluta. La riscoperta della materia prima, lo stretto rapporto tra produttore e consumatore, le tecniche di cottura blande per non rovinare la purezza degli alimenti; sono tutte azioni che erano quasi routine per i nostri progenitori. Queste figure, non solo ci hanno aiutati in una buona educazioni alimentare, uno dei più grandi problemi oggi giorno per insurrezione di malattie cancerogene, ma ci hanno anche insegnato cosa significhi consumare un piatto di pasta in famiglia, riscoprendo e trasmettendo alle future generazioni uno degli aspetti più importanti della dieta mediterranea: la convivialità; mi sento in dovere di citare una delle frasi più iconiche di Plutarco:” Noi non mangiamo e beviamo, ma mangiamo e beviamo insieme”.

Dove mangiano tre, mangiano anche quattro

Questa è una delle frasi più sentite al sud, che ci fa riflettere su quanto riescano a fare economia alimentare, azzerando qualsiasi forma di spreco; la domanda poi sorge spontanea, ma quanto erano avanti i nostri nonni? Lo spreco alimentare oggi giorno riuscirebbe a soddisfare circa tre volte quella che anche dall’OMS, viene definita fame nel mondo, purtroppo però tra il dire ed il fare c’è ancora un gap troppo distante. Questa soluzione non incide però solo sulla carenza di cibo nel mondo, ma anche in termini di sostenibilità, forse il tema più discusso negli ultimi anni; spreco zero, significa riciclo a 360 gradi, che in termini di benefici li traduciamo nella possibilità di garantire alle future generazioni lo stesso stile di vita che noi abbiamo oggi. Non ci tocca fare altro quindi che ringraziare queste figure portanti della nostra vita, per averci insegnato indirettamente da dove ripartire, per un mondo migliore e più sano.